Siria, massacro jihadista Ombre saudite
Un camion bomba esplode a Hama, contro i soldati regolari siriani e provoca una strage di grandi proporzioni. Questa notizia giunge a sole due settimane dalla costituzione dell'Esercito dell'Islam, appoggiato dall'Arabia Saudita.
Un camion bomba è esploso a Hama, nella Siria occidentale, provocando almeno 30 morti. Le immagini che giungono dalla scena del delitto sono raccapriccianti: sembra un terreno colpito da un bombardamento a tappeto. I terroristi hanno riempito il loro veicolo con una tonnellata di esplosivo. Un’auto-cisterna, piena di carburante, è stata coinvolta nell’esplosione e ha moltiplicato la potenza distruttiva della bomba. L’esecutore materiale era un terrorista suicida ed è morto nell’esplosione.
L’attentato è avvenuto sulla strada che, da Hama, porta a Salamiya, presso un posto di blocco dell’esercito regolare. I militari erano il bersaglio principale degli attentatori, anche se l’affollamento di quella strada e la potenza dell’esplosione hanno fatto sì che la maggioranza delle vittime fossero civili. Hama era uno degli epicentri della rivoluzione contro Bashar al Assad nel 2011, ma dall’estate di quel primo anno di guerra civile, è stata riconquistata dai governativi e, da allora, è rimasta sotto il loro controllo. Non c’è dubbio alcuno che nel mirino degli attentatori vi fossero i governativi, pazienza che poi ci siano andati di mezzo anche tanti civili che sono sotto il controllo di Damasco. Hama è anche vicina al confine libanese, dove non opera solo Hezbollah (che è filo-Assad), ma anche una serie di milizie sunnite dichiaratamente schierate dalla parte dei ribelli e pronte a scatenare una seconda guerra civile anche in Libano, dove ingaggiano scaramucce contro Hezbollah e i governativi. Hama è, inoltre, un obiettivo storico della jihad. Fu infatti teatro della prima grande rivoluzione islamista contro il regime di Hafez al Assad (padre di Bashar), repressa nel sangue nel 1982: il numero di morti, ancora sconosciuto, si aggira sui 20mila. Hama è tuttora ricordata come uno dei più grandi eccidi all’interno di un Paese arabo e uno dei colpi più duri subiti dai Fratelli Musulmani, che allora guidavano la ribellione.
Insomma, modalità di esecuzione, luogo e tipo di bersaglio lasciano ben pochi dubbi sulla matrice dell’attentato: sono state milizie jihadiste a compierlo. Proprio all’inizio di ottobre, Al Nusrah (gruppo armato legato ad Al Qaeda) e altri movimenti estremisti islamici che operano in Siria, si sono riunificati sotto un’unica bandiera, l’Esercito Islamico. La cui copertura politica è il movimento Islam e Sharia, nemico sia dei governativi di Bashar al Assad, sia della resistenza dei “moderati” dell’Esercito Siriano Libero. Non è un mistero che questa nuova formazione irregolare di matrice jihadista sia foraggiata dall’Arabia Saudita, tanto che l’esperto statunitense Philip Graves la definisce il “più grande export dell’Arabia Saudita”.
Questo attentato, dunque, può essere un prodotto, diretto o indiretto, dell’intervento saudita nella guerra in Siria, volto a creare un blocco sunnita e radicale islamico, pronto a prendere il potere al momento della caduta del dittatore. E questo aspetto, se possibile, rende la vicenda ancora più inquietante. Perché solo tre giorni fa l’Arabia Saudita ha rinunciato volontariamente al seggio non permanente del Consiglio di Sicurezza, che le era stato offerto dall’Onu. Lo ha fatto con una decisione improvvisa, senza neppure informare i vertici delle Nazioni Unite, che sono state colte completamente alla sprovvista. Per quali motivi la monarchia di Riyadh ha rinunciato a un posto al sole così importante? Considerando anche che si sarebbe trattato della sua prima presenza al Consiglio di Sicurezza, il massimo organismo di sicurezza collettiva al mondo? Le motivazioni ufficiali, spiegate in un comunicato rilasciato da Riyadh sono queste: «Il Regno di Arabia Saudita è convinto che il modo, i meccanismi di azione e il doppio standard esistente nel Consiglio di Sicurezza impediscono di svolgere le proprie funzioni e di assumere le proprie responsabilità a preservare la pace e la sicurezza internazionale come e quando richiesto». In particolar modo, la nota cita la mancanza di una soluzione “giusta e duratura” per la questione palestinese, ma soprattutto il fatto di «consentire al regime al potere in Siria di uccidere e bruciare la sua gente con armi chimiche, mentre il mondo sta a guardare, senza l’applicazione di sanzioni dissuasive». Due giorni dopo un camion bomba azionato da terroristi jihadisti, molto probabilmente finanziati (o anche armati) dai sauditi, esplode a Hama facendo una strage. È questo quel che Riyadh intende per “sanzione dissuasiva”?
A prescindere dall’esistenza o meno di legami diretti fra Riyadh e i terroristi di Hama, la dinamica degli eventi, in questi ultimi mesi, è piuttosto evidente. Di fronte alla passività dell’Onu e al mancato intervento degli Stati Uniti, è l’Arabia Saudita che sta “colmando il vuoto”, a modo suo, armando le milizie che più si avvicinano alla sua ideologia islamica wahabita, intransigente e totalitaria. Lo fa col tacito consenso della democrazie occidentali, ben contente di mandare avanti qualcun altro, al posto loro, a combattere in Siria dalla parte dei ribelli. E persino pronte a offrire a Riyadh, uno dei regimi più repressivi del mondo, un posto al sole, al Consiglio di Sicurezza dell’Onu.