Siria: le armi non tacciono, ma la speranza non muore
La nuova tregua in Siria è già stata interrotta più volte dai combattimenti. Secondo monsignor Mario Zenari, nunzio apostolico a Damasco, c'è però qualche motivo per sperare. Le grandi potenze, stavolta, fanno sul serio e hanno investito entrambe sulla Turchia quale garante della tregua.
Passate le prime ventiquattr'ore, come sta andando il cessate il fuoco in Siria negoziato da Stati Uniti e Russia? Esattamente come da copione: ha funzionato nelle prime ore, con una nottata abbastanza calma nella maggior parte del Paese. Ora però i nodi stanno venendo al pettine. Con le accuse dei russi alle forze anti-Assad di aver violato la tregua in più di venti diversi episodi. E il governo di Damasco che - dall'altra parte - blocca la colonna di aiuti umanitari che, secondo gli accordi, dalla Turchia avrebbe dovuto raggiungere la zona est di Aleppo, quella controllata dagli oppositori.
Sembrerebbe essere già la replica del fallimento consumatosi a febbraio, quando la tregua durò appena una manciata di giorni; e si trasformò, poi, nel preludio di una nuova fase sanguinosissima della guerra, specie proprio per la città di Aleppo. È un rischio evidente. Eppure dare già per persa questa flebile speranza sarebbe il peggior servizio che oggi si possa fare alla Siria. Lo dichiarava con chiarezza l'altro giorno il nunzio apostolico a Damasco monsignor Mario Zenari interpellato da AsiaNews: «Speriamo davvero che il cessate il fuoco possa riuscire - commentava -. La soluzione del conflitto va di pari passo con la cessazione degli scontri sul campo. E ogni tentativo che va in questa direzione è un segno positivo». Aggiungendo poi un'altra osservazione interessante: «La ferma determinazione nel tentativo di raggiungere un accordo mostrata in questi giorni dalle superpotenze è un elemento che fa sperare. Sembra di vedere maggiore buona volontà fra le parti, anche se occorre la volontà di tutti».
È vero: Stati Uniti e Russia stavolta sembrano provare a fare sul serio. Cercano una via d'uscita, più che altro perché per entrambi la situazione sta diventando scomoda in Siria. Anche Mosca, infatti, dietro le quinte, appare molto meno ottimista di Bashar al-Assad sulle concrete possibilità dell'esercito siriano di riprendere il controllo dell''intero Paese. E soprattutto - oggi che Washington appare molto più malleabile - Mosca vorrebbe la soluzione politica. Che però oggi passa per il coinvolgimento di una sponda ben precisa: la spregiudicata Turchia di Erdogan, che guarda caso è stata tra i primi ad esprimere il proprio sostegno all'intesa annunciata da Kerry e Lavrov.
Come mai Ankara - che dopo essere entrata direttamente in questo conflitto qualche settimana fa si è già ritagliata la sua «fascia di sicurezza» al confine, per ragioni molto più legate alla minaccia curda che all'Isis - oggi è già disposta a fermarsi? Perché evidentemente ha avuto sia da Mosca sia da Washington ampi segnali sul peso che potrebbe giocare al tavolo negoziale sul futuro della Siria. Un peso che andrebbe ben al di là dell'eterno dilemma Assad sì o Assad no nel futuro di Damasco.
La Turchia è stata lasciata entrare dalla Russia in Siria con un obiettivo: riportare davvero il fronte anti-Assad sotto il controllo di un interlocutore con cui si possa negoziare; con un calcolo politico spregiudicato, gli hanno dato mano libera con i curdi in cambio di un impegno a non ostacolare la stabilizzazione. E Washington, per paura di perdere del tutto lo storico alleato, non si è opposta.
Se lo si guarda da questa prospettiva si capisce anche meglio che cosa significhi il volontaristico invito alle milizie «moderate» a prendere le distanze da al Nusra, movimento islamista insieme al quale hanno combattuto fino a ieri. Alla fine è a Erdogan che stanno chiedendo di prendere queste distanze, in cambio di un dividendo cospicuo e non solo politico: in gioco c'è anche la possibilità di una «liberazione» di Raqqa targata Ankara, con quello che potrebbe significare per il futuro di una Siria. Che resterebbe, sì, un Paese indiviso nei suoi confini; ma anche il Libano in teoria lo sarebbe, ma vediamo tutti ancora oggi che cosa il dopo-guerra abbia lasciato dietro di sé anche là.
Il nodo della tregua - dunque - gira soprattutto intorno alla Turchia: Erdogan oggi ha tutto l'interesse a far sì che il cessate il fuoco tenga e si apra il tavolo della trattativa politica. Ma Damasco vuole maggiori rassicurazioni da Mosca; teme di finire tradita, schiacciata in interessi geopolitici che sono ben più ampi della partita siriana. Lo stesso braccio di ferro sul convoglio diretto ad Aleppo - oltre che per l'ovvia necessità di controllare che con gli aiuti non entrino nuove armi - vuole essere anche un messaggio politico: la presenza di Ankara nel nord del Paese è vista da Assad con sempre più insofferenza.
Ma i conflitti che si intrecciano sono tanti, così come le forze in campo. Ed ecco che ieri è arrivato il promemoria anche dal fronte sud, con la nuova scaramuccia con l'aviazione israeliana nella zona del Golan: razzi sparati contro un aereo con la stella di Davide in volo sui cieli siriani. Perché per Israele l'obiettivo di tutto il conflitto siriano resta uno solo: non avere i filo-iraniani di Hezbollah sul proprio confine. E pur di evitarlo sono disposti a flirtare anche con i gruppi jihadisti sunniti, come più volte successo in questi anni. E ad Assad un po' di retorica sull'aggressione sionista fa comunque sempre gioco.
C'è la tregua dunque. Ma ci sono anche tutte le complicazioni che ciascuna delle potenze in gioco in questi cinque anni di guerra folle ha creato per perseguire i propri interessi sulla pelle della Siria. Sarà difficile che le armi tacciano del tutto; ma provare almeno a ridurre le tensioni, oggi, resta l'unica strada realisticamente percorribile per far uscire milioni di persone da questa polveriera apparentemente senza fine.