Siria, cronaca di un fallimento annunciato
Fallito Ginevra 2, il secondo negoziato per la pace in Siria, l'inviato dell'Onu Brahimi chiede scusa al popolo siriano. Ma la teatralità non serve. Servono le uniche condizioni per la pace: Arabia Saudita e Iran trovino un accordo.
Tutto si può dire tranne che il fallimento del secondo round dei negoziati sulla Siria sia arrivato inaspettato. E anche le lacrime di coccodrillo dell'inviato delle Nazioni Unite e della Lega Araba - l'ex ministro degli Esteri algerino Lakhdar Brahimi - sono arrivate tutt'altro che inaspettate: «Credo che sia meglio che ciascuna parte torni indietro e rifletta sulle sue responsabilità e se vuole o meno che questo processo continui», ha dichiarato sabato, chiedendo platealmente scusa al popolo siriano «le cui speranze erano davvero grandi».
Melodrammatico al punto giusto. Se non fosse per un piccolo dettaglio: ma un mediatore internazionale ha il compito di fare prediche a buon mercato o di creare le condizioni perché un negoziato possa andare a buon fine? Perché Ginevra 2 finora è assomigliata molto di più a una photo opportunity che a un dialogo vero. Un'occasione per poter dire che la comunità internazionale ha provato a fare qualcosa per fermare il massacro siriano. Quello su cui da Londra in queste ore il solito Osservatorio sui diritti umani in Siria ha diffuso il nuovo dato secondo il quale è stata superata la soglia dei 140 mila morti. Numero che sa molto di risposta politica, dal momento che nessuno oggi è in grado di contare realmente il numero delle vittime nel Paese. E soprattutto non dice nulla sulle responsabilità di queste morti, come se fossero sul serio da attribuire tutte solo alla ferocia di Bashar al Assad.
Non poteva produrre qualcosa di concreto Ginevra 2. E per una ragione molto semplice: a un negoziato servono due requisiti fondamentali e cioè che sia chiaro l'obiettivo e che al tavolo ci sia chi può davvero decidere. Nessuna di queste due condizioni oggi si ritrovano nel negoziato in teoria in corso sulla Siria. È stato lo stesso Brahimi ad ammettere le distanze sull'oggetto della discussione con un candore disarmante: «Il governo - ha dichiarato - considera che la questione più importante sia il terrorismo. L'opposizione considera che la questione più importante sia l'autorità governativa di transizione. Noi avevamo suggerito che il primo giorno si parlasse delle violenze e di combattere il terrorismo, il secondo dell'autorità governativa». Viene da chiedersi come mai questa idea geniale del mediatore Onu non abbia funzionato...
La verità è che chi è seduto al tavolo di Ginevra 2 attualmente ha obiettivi opposti. E - secondo aspetto - può mantenerli fermi perché quanti hanno interesse a prolungare questa guerra non sono seduti al tavolo del negoziato. L'unica strada per fermare il massacro in Siria passa infatti da Riyadh e Teheran: finché non saranno l'Arabia Saudita e l'Iran a negoziare realmente non potrà fermarsi la carneficina siriana. Perché sono loro principalmente a foraggiare le due parti che si combattono sulla pelle dei siriani, in un conflitto a distanza che ha come posta in gioco la supremazia negli equilibri regionali. E sono proprio loro oggi a non aver alcun interesse ad arrivare a Damasco a un governo di transizione (l'Iran) o a fermare l'azione delle milizie islamiste (l'Arabia Saudita).
Così ora Riyadh - che in Ginevra 2 non ci ha mai creduto - torna a premere sull'acceleratore della soluzione militare. Ha annunciato l'invio di nuovi missili antiaerei ai ribelli per contrastare le barrel bomb, i barili di nafta pieni di esplosivo sganciati dall'aviazione siriana su zone abitate con effetti facilmente intuibili. Ma soprattutto i sauditi tornano a premere Obama - che si recherà in Arabia Saudita nella seconda metà di marzo - affinché abbandoni la cautela che a settembre lo ha portato a fermare i caccia. O perlomeno sia prodigo anche lui di armi per le forze anti-Assad.
Per essere più rassicurante con Washington la casa reale di Riyadh ha emanato qualche giorno fa un decreto in cui scoraggia i sauditi a unirsi al jihad in Siria: chi lo fa d'ora in poi rischierebbe vent'anni di carcere. Peccato che arrivi dopo una propaganda di senso opposto andata avanti da tre anni nelle moschee del Paese, tanto è vero che si stima che siano 2500 oggi i sauditi che combattono in Siria. Per di più proprio in queste ore c'è grande confusione tra le fila degli oppositori ad Assad: pare, infatti, che sia stato destituito il generale Salim Idris, il comandante dell'Esercito siriano libero, che si trovava in visita in Qatar. Il suo posto sarebbe stato preso dal generale Abdul-Ilah al-Bashir al-Noeimi e andrebbe letto come un riavvicinamento alle forze del cosiddetto Fronte Islamico, le formazioni che nel mese di novembre avevano clamorosamente preso le distanze dalle brigati ufficiali «ostaggio dell'Occidente».
Nel mezzo di tutto questo oggi a Vienna riprende il negoziato tra Teheran e i 5+1 (Stati Uniti, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania) sulla questione del nucleare iraniano. Pur trattandosi di questioni diverse è evidente che un passo avanti su questo fronte non potrebbe non aver ripercussioni anche sullo scacchiere siriano. E forse anche per questo ieri a gelare le speranze dei riformisti iraniani ci ha pensato la Guida Suprema Ali Khamenei: «Non sono contrario ai negoziati, ma non sono ottimista, non porteranno da nessuna parte», ha ammonito. Su questo punto pare proprio che con i sauditi vadano perfettamente d'accordo.