Sinistra senza identità, preda di ogni estremismo
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La fine del blocco comunista aveva lasciato la sinistra senza la sua casa sovietica. La globalizzazione è stata abbracciata dalla nuova sinistra solo per diluire la civiltà occidentale. La risposta sovranista la sta spingendo verso l'estremismo.

Esiste ancora la sinistra in Occidente? Posta così, senza ulteriori specificazioni, sembrerebbe una domanda assurda. L'esperienza quotidiana ci dice che movimenti, partiti, intellettuali opinione pubblica classificabili come "di sinistra" sono onnipresenti e molto rumorosi ovunque: nel dibattito politico, nei media, nella cultura ufficiale, nelle università, nelle scuole.
Eppure, se il nostro sguardo si allarga appena in una prospettiva storica, guardando a cosa è stata la politica in Europa e in Occidente dal secondo dopoguerra all'età della globalizzazione, la domanda incomincia a prendere senso, e ci richiama ad una realtà che ha subito mutazioni tanto profonde da far pensare ad un vero e proprio snaturamento.
Durante la guerra fredda, di fronte alla contrapposizione totale tra Occidente liberaldemocratico a economia di mercato e comunismo sovietico, le forze di sinistra europee che per circa un secolo si erano fondate sull'ideologia socialista marxista erano state poste davanti ad una alternativa secca: o schierarsi con il nemico di oltrecortina, auto-emarginandosi dalla dialettica pluralista democratica, o proseguire sulla strada aperta dal socialismo riformista, inserendo obiettivi di giustizia sociale, redistribuzione della ricchezza e tutela delle classi lavoratrici all'interno del quadro dell'economia capitalistica e dei sistemi di libertà fondati sui diritti individuali. Su questa base, i partiti socialisti e socialdemocratici riuscirono quasi ovunque a diventare forze di governo.
Dopo il 1989 la definitiva sconfitta del modello comunista e l'inizio dei processi di globalizzazione economica imponevano alle sinistre una ridefinizione della propria identità in un contesto tanto mutato. Mentre l'avanzare impetuoso delle logiche di mercato sembrava implicare un superamento strutturale di ogni dottrina di tipo socialista, la sinistra si andava sempre più identificando socialmente in ceti borghesi colti urbani, e le aspirazioni progressiste di esse storicamente proprie si spostavano dal piano dell'eguaglianza sociale a obiettivi più astratti, collocati in una sfera primariamente etica, e connessi ad un crescente senso di colpa interiorizzato di quelle borghesie per responsabilità storiche vere o presunte dell'Occidente verso tutti i mali del mondo: l'ampliamento dei "diritti" intesi come "risarcimento" per le discriminazioni subite dalle più varie minoranze e da gruppi identificati come vittime (minoranze etniche, popoli ex colonizzati, minoranze fondate su preferenze sessuali o identità di genere) e l'ambientalismo apocalittico fondato sull'idea di un'incombente catastrofe climatica imputabile, naturalmente, allo sregolato sviluppo delle società industrializzate.
Alla luce della loro collocazione socio-culturale e della loro adesione a tali battaglie "di civiltà" le sinistre post-guerra fredda ridefinivano la propria identità essenzialmente come sostenitrici della globalizzazione, intendendo quest'ultima come nuovo orizzonte progressista in quanto generatrice di potenzialità infinite di auto-affermazione per individui slegati da ogni appartenenza profonda, e fondata su un melting pot multiculturale.
Ma le dinamiche economiche, sociali e culturali effettive messe in moto dai processi di globalizzazione ben presto hanno cominciato a produrre effetti molto diversi da quelli che i neo-progressisti politically correct o woke, si attendevano. Delocalizzazione e concorrenza agguerrita di paesi produttori dai costi sensibilmente più bassi hanno determinato in Occidente desertificazione industriale, profonde divisioni sociali e nuovi conflitti, così come l'ossessione della transizione green, risoltasi in un enorme vantaggio per le economie in ascesa, soprattutto asiatiche, e in un peso insostenibile per il tenore di vita dei "vecchi" paesi industrializzati. L'immigrazione sregolata ha provocato violenza, disordine, insicurezza diffusa, paura di disgregazione dei principi alla base delle comunità. E la propaganda fondamentalista gender ha suscitato, dentro i paesi occidentali ma soprattutto fuori di essi, reazioni fortissime che hanno rivelato la persistenza di nuclei di civiltà e di principi etico-religiosi per nulla disposti a lasciarsi dissolvere in un relativismo "arcobaleno". Il corpus dottrinario delle sinistre "wokizzate" ha procurato dunque loro un drammatico calo di consensi.
Dall'altro lato dello spettro politico, mentre i partiti moderati di centro-destra erano entrati anch'essi in crisi d'identità con il passaggio al mondo globalizzato, l'insicurezza e la frustrazione connessi alle rapide trasformazioni in corso producevano la nascita e la crescita di movimenti nuovi, imperniati sul tentativo di proteggere le comunità occidentali dagli effetti indesiderati del globalismo: quelli variamente chiamati "sovranisti" o "populisti", che si sono evoluti verso una nuova forma di conservatorismo, fondato sulla difesa dell'identità ebraico-cristiana dell'Occidente, sulla lotta all'immigrazione selvaggia, sul protezionismo mirato a un riequilibrio economico nei confronti del resto del mondo, sulla aperta contestazione dei dogmi green. Questi movimenti sono giunti al governo in molti paesi, e innanzitutto negli Stati Uniti, attraverso la trasformazione del Partito repubblicano in senso "Maga" impressa dalla leadership di Donald Trump.
Davanti a tali sviluppi i progressisti "post-moderni" hanno reagito con rabbia, cercando di delegittimare e censurare - grazie al prevalente controllo degli apparati mediatici che aveva imposto la loro egemonia culturale - tutte le forze contrarie alle loro categorie ideologiche, ma con sempre minore successo. E così, man mano che la loro "narrazione" perdeva presa, all'interno delle loro fila sono andate prevalendo posizioni sempre più radicali: e si è giunti in molti casi a sostenere gruppi estremisti dalle tendenze anche eversive, e a giustificare la violenza fisica contro gli avversari, sulla base di una rappresentazione cupa e manichea della dialettica politica che addita sempre e dovunque le nuove destre come "fasciste", razziste, autoritarie, repressive, produttrici di "discorsi di odio".
In tale contesto, nelle sinistre occidentali hanno ripreso fiato con grande slancio posizioni di condanna dell'Occidente in quanto tale come una sorta di "impero del male", e di sostegno acritico a qualunque soggetto internazionale ad esso ostile, per quanto violento e contrasrio ad ogni suo principio, inclusi quelli propri del "dirittismo" woke: dal regime dittatoriale cinese all'Iran integralista degli ayatollah, fino a tutti i suoi emissari mediorientali, da Hezbollah agli Houthi a Hamas.
È all'interno di questa furiosa pulsione estremista e autolesionista, causata da una crescente marginalità nel dibattito politico democratico, che può essere compreso il grande movimento emotivo "pro Pal" nato negli ultimi mesi per reazione alla guerra di Gaza tra Israele e gli integralisti islamici. Un movimento che, facendo leva sul consueto, atavico senso di colpa occidentale e riportando in luce un antisemitismo mai veramente superato, ha espresso una persistente mancanza di consapevolezza degli interessi occidentali e dell'importanza di difendere il suo modello di civiltà contro le minacce esterne. E che si salda alla crescente osmosi tra sinistre occidentali e islamismo diffuso nelle comunità di immigrati di seconda e terza generazione.
Sempre più marginali in un quadro politico articolato in tecno-liberismo e conservatorismo sovranista, le residue sinistre woke sembrano puntare su un'alleanza anti-sistema, destabilizzatrice con gli integralisti presenti nei loro paesi. Con effetti potenziali molto pericolosi di degenerazione violenta del tessuto democratico.