Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Santa Teresa d’Avila a cura di Ermes Dovico
una deriva globale

Sinistra è ormai sinonimo di repressione del dissenso

Ascolta la versione audio dell'articolo

La Sinistra si distingue solo per la criminalizzazione del dissenso. Una torsione repressiva che porta a criminalizzare chiunque si opponga a immigrazione indiscriminata, aborto come “diritto fondamentale”, utero in affitto, “transizione di genere” e millenarismo climatista.

Editoriali 22_08_2024

La tendenza alla negazione del pluralismo democratico, alla criminalizzazione del dissenso e alla censura, già emersa da tempo nelle società occidentali che ancora si definiscono liberaldemocratiche, appare ulteriormente consolidarsi, e anzi subire una decisa accelerazione. Più specificamente, essa si manifesta ormai come la caratteristica principale di tutto il mondo politico, intellettuale e mediatico accomunato in qualche modo sotto l'etichetta di  “progressismo” e “sinistra”.

Molti episodi delle ultime settimane confermano tale crescente torsione repressiva: dalla massiccia persecuzione poliziesca e giudiziaria di opinioni dissenzienti – comprese quelle espresse sui social media - lanciata dal governo britannico laburista di Keir Starmer contro i manifestanti anti-immigrazione, alla grottesca lettera minatoria inviata dal commissario Ue Thierry Breton a Elon Musk per minacciare ritorsioni per lo spazio mediatico da lui concesso a Donald Trump, fino alle esplicite minacce del deputato europeo macroniano Sandro Gozi di sopprimere tout court il social medium X, di proprietà dello stesso Musk, sul territorio dell'Unione. Ma se si volessero citare tutte le continue richieste di cancellazione delle voci avversarie, su ogni questione in discussione, provenienti dalle sinistre occidentali l'elenco sarebbe infinito.

Non si tratta, ovviamente, di una tendenza nata ieri. L'”album di famiglia” storico di ideologie e partiti di sinistra in tal senso è molto cospicuo, dal giacobinismo fino alle dittature comuniste del XX secolo.

Nel secondo Novecento l'inclinazione repressiva, a dispetto delle invocazioni sessantottine al free speech e al “vietato vietare”, ha preso un corso meno apparentemente evidente, ma altrettanto pericoloso con il progressivo abbandono del paradigma della lotta di classe in favore di quello dei “diritti civili” intesi come “risarcimento” a gruppi minoritari per le più varie discriminazioni, secondo la traccia della identity politics. In merito a tali temi, l'argomentazione del liberal occidentale, esplicita o implicita, diventava più o meno la seguente: chiunque critichi nel merito qualsiasi misura invocata in nome della non discriminazione compie un atto di violenza contro i gruppi minoritari già discriminati. Su quelle misure la political correctness autorizza soltanto una posizione favorevole “a prescindere”: il pluralismo diventa automaticamente “discorso di odio”, e va quindi impedito, bollando come “razzista” “suprematista”, o “fobico” ogni oppositore delle deriva “dirittista” promossa in nome del nuovo mito “tribale” del progresso.

Ma il salto di qualità decisivo nel senso della mutazione genetica della democrazia in regime “a partito unico”, nella mente e nelle azioni dei “progressisti” occidentali, è avvenuto, tra gli anni Dieci e Venti del XXI secolo, con l'avvento di un paradigma ideologico che vede nella politica in primo luogo una lotta contro “emergenze”. Una lotta che rappresenta una questione di vita o di morte per le collettività, e che dunque in quanto tale non può essere esercitata efficacemente attraverso la democrazia pluralista (le cui procedure ritarderebbero o pregiudicherebbero fatalmente azioni inevitabili e necessarie) ma deve essere affidata a “comitati di salute pubblica” organizzati con una logica tecnocratica e/o giustificati in nome della “scienza”.

Tale paradigma si è imposto innanzitutto attraverso la predicazione martellante dell'ideologia millenaristica del catastrofismo climatico, in cui l'esigenza di ridurre a tutti i costi le “emissioni” di anidride carbonica per “salvare il pianeta” è stata affermata come punto assoluto e imprescindibile, senza alcuna possibilità di discussione. Poi è stato riproposto in forma altrettanto radicale con l'epidemia di Covid 19, additata come minaccia talmente apocalittica da giustificare restrizioni inaudite delle libertà individuali sancite dagli ordinamenti liberaldemocratici. Infine, con toni ultimativi è stato invocato in occasione della guerra russo-ucraina per tacitare ogni critica alla linea di contrapposizione totale nei confronti di Mosca adottata da Nato e Ue.

Chi si oppone all'immigrazione indiscriminata, all'aborto assolutizzato come “diritto fondamentale”,  all'utero in affitto, alla “transizione di genere” illimitata sui minori, all'indottrinamento gender nelle istituzioni formative viene etichettato dai “progressisti” contemporanei come un odiatore, un razzista, un omofobo/transofobo di “estrema destra” violento e pericoloso. Ma chi contesta il millenarismo climatista viene automaticamente considerato colpevole dell'estinzione dell'umanità, del collasso dell'ecosistema, delle sette piaghe d'Egitto, e deve essere sistematicamente messo a tacere per la salvezza di tutti.

Nella stessa logica chi critica come irrazionali, inutili e illegittimi i lockdown, i coprifuoco, i ricatti e gli obblighi vaccinali viene additato come untore, responsabile morale di ogni contagio, sofferenza o morte dei “fragili”. E chi critica la corsa all'escalation militare, l'abbandono di ogni via diplomatica, la riduzione dell'economia a economia di guerra viene accusato con disprezzo - da sinistre improvvisamente convertitesi dal pacifismo dogmatico al bellicismo moralista - di essere ipso facto al soldo di un tiranno, e di favorire il massacro degli aggrediti da parte degli aggressori.

Dalla identity politics all'emergenzialismo coatto la cultura politica dei progressisti occidentali completa la sua torsione verso un ripudio strutturale del pluralismo, verso la riduzione della democrazia a regime in cui è possibile e necessaria una sola scelta, imposta dalle “magnifiche sorti e progressive” della civiltà unica, o dalla salvezza contro catastrofi globali. Il tutto, attraverso la versione aggiornata di quella che era stata la propaganda di regime a senso unico nelle dittature novecentesche: lo storytelling o “narrazione”, trasformazione della dialettica politica in ricostruzione edificante ed emotiva di qualsiasi questione in ballo, proposta allo stesso modo da un coro di media – tradizionali/generalisti, digitali, social – e di agenzie istituzionali tutti coordinati secondo una regia comune, dall'informazione alla cultura fino all'intrattenimento. Se qualche mezzo di informazione, qualche centro di elaborazione scientifica e culturale, qualche intellettuale indipendente, qualche artista “stona”, e si pone in contrapposizione al coro, scatta immediatamente la richiesta indignata e rabbiosa di censurarlo, zittirlo, cancellarlo.

Certo Rousseau, Robespierre e Marx non erano dei santi. Le loro dottrine sono indubbiamente i semi cattivi da cui ogni regime repressivo, ogni esercizio della censura e della delegittimazione, ogni negazione del pluralismo si sono sviluppati. Ma, almeno, quegli ideologi avevano, dietro l'intolleranza, una visione del mondo argomentata in maniera che puntava a persuadere. Il progressismo del XXI secolo appare regredito solo all'invocazione a tappare la bocca agli altri in nome di parole d'ordine dogmatiche, primordiali, fondate sul puro dominio della paura.