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il caso albania

Sinistra, Chiesa e giudici: in Italia comanda il dogma immigrazionista

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Il caso Albania segna l'ennesima convergenza tra “progressisti” e toghe politicizzate, che configura un blocco ideologico granitico, a cui si aggiungono i vertici della Cei, intenzionato a usare tutte le armi per impedire qualsiasi cambiamento di rotta sul tema immigrazione.

Attualità 21_10_2024

In gran parte dell'Occidente sembrano manifestarsi notevoli segni di ripensamento in merito alla gestione dei problemi legati all'immigrazione, davanti agli esiti disastrosi del lassismo e dell'accoglienza indiscriminata sulla coesione sociale e sulla sicurezza.

Negli Stati Uniti, il tema del controllo del confine e dei danni prodotti dall'immigrazione incontrollata negli anni dell'amministrazione Biden/Harris è al centro della campagna elettorale, e la candidata del Partito democratico è costretta a giocare costantemente in difesa sul tema, promettendo – non si sa con quanta credibilità – di adottare una linea più intransigente in materia rispetto al passato. Nei paesi dell'Unione europea, a partire dalla Germania, si adottano regole più severe per la concessione dell'asilo, si incrementano i rimpatri degli irregolari non aventi diritto ad esso, si prende in considerazione sempre più seriamente il trasferimento di irregolari e richiedenti asilo in località extraterritoriali, secondo il modello prefigurato dalla Gran Bretagna con l'accordo con il Ruanda, poi abbandonato con l'avvento di Keith Starmer al governo, e ora adottato dal governo Meloni con le strutture create in Albania.

Ma proprio una parte rilevante della classe politica e dell'establishment italiano, in questo momento, appare in clamorosa controtendenza rispetto alla generale percezione – benché tardiva, forse fuori tempo massimo – di quanto sia necessario ripensare profondamente le politiche migratorie. L'opposizione di sinistra continua a scagliarsi con violenza contro ogni tentativo di riportare sotto controllo i flussi in entrata posto in atto dal governo (con qualche successo nell'ultimo anno); si straccia le vesti indignata davanti ai primi trasferimenti di richiedenti asilo in Albania, definendo come “lager” qualsiasi struttura o soluzione che non coincida con porte totalmente aperte; chiede addirittura all'Ue di avviare una procedura d'infrazione contro l'Italia per i fondi impiegati in quel progetto.

Sulla testa di Matteo Salvini pende ancora un processo per sequestro di persona, con imminente sentenza, per aver semplicemente tentato di far rispettare le leggi vigenti sull'immigrazione impedendo gli sbarchi.

E ora una parte della magistratura si autoinveste esplicitamente della facoltà di contestare e correggere le scelte politiche di un governo, come ha fatto la sezione immigrazione del Tribunale di Roma, che non ha convalidato il trattenimento dei migranti in Albania, con la lunare argomentazione secondo cui Egitto o Bangladesh non sarebbero “Stati sicuri” per i loro cittadini espatriati: criterio che, se venisse adottato sistematicamente, renderebbe praticamente legittima un'invasione di massa del territorio italiano da parte della popolazione di più di mezzo mondo, col pretesto di vere o presunte violazioni dei diritti da parte di qualunque paese. Una ennesima convergenza tra “progressisti”e toghe politicizzate che configura un blocco ideologico granitico intenzionato a usare tutte le armi per impedire qualsiasi cambiamento di rotta sul tema.

Come è possibile spiegare tale ostentato, ostinato rifiuto di qualsiasi ripensamento critico rispetto a una petizione di principio puramente astratta, del tutto slegata dalla realtà pratica e anche dai principi effettivi del diritto, come quella dell'“accoglienza”, senza se e senza ma?

L'immigrazionismo, ossia il “dogma” ideologico secondo cui i paesi occidentali dovrebbero accogliere tutti coloro che vogliono stabilirsi in essi, è una componente essenziale del progressismo politically correct o woke, che a partire dal tardo ventesimo secolo ha rimpiazzato la vecchia retorica marxista del conflitto di classe con quella della rivincita delle minoranze discriminate. Il più totale relativismo culturale - che assolve a priori ogni dittatura, estremismo, integralismo dei popoli “altri” attribuendone regolarmente la colpa al cattivo imperialisrmo “bianco” - e l'utopia multiculturale, in base alla quale le civiltà sono destinate a mescolarsi e fondersi felicemente, sono tra i principali pilastri della visione del mondo integralmente relativista professata dalle élites di sinistra occidentali. Elites del tutto inabili a comprendere l'importanza fondamentale di dosare l'immigrazione con severità e rigore sufficiente a favorire una autentica integrazione dei nuovi arrivati ai principi originari della nostra civiltà, altrimenti a concreto rischio di essere totalmente travolti da odi etnici e religiosi, da violazioni impunite della dignità umana, dalla delinquenza, dal terrorismo integralista.

La forte polarizzazione tra élites progressiste globaliste e larghe fasce di società ostili ai nuovi miti ideologici, e la conseguente radicalizzazione politica verificatasi negli ultimi decenni, hanno sicuramente accentuato nelle sinistre il prevalere, su questi temi, delle posizioni più dottrinarie e velleitarie. Ma, all'interno di tale tendenza generale, va considerato il fatto che la dialettica politica italiana, così come il mainstream culturale del paese, tende a “importare” i fenomeni egemoni negli “Stati-guida” dell'Occidente con un certo ritardo, condizionata com'è da equilibri corporativi interni. Le parole d'ordine e le idiosincrasie proprie del multiculturalismo più spinto, imperanti altrove già dalla seconda metà del Novecento, hanno cominciato, così, a dilagare in Italia da poco più di un decennio – complice anche l'esplosione dell'immigrazione clandestina via mare dal Nord Africa – con la canonizzazione di “eroi” come Mimmo Lucano, Carola Rackete o Aboubakar Soumahoro.

La “crisi di rigetto” dell'establishment culturale legato alla sinistra innescata dalla vittoria elettorale della coalizione di destra guidata da Giorgia Meloni ha esasperato e drammatizzato ulteriormente la contrapposizione, caricata da molti addirittura della solennità di una “battaglia di civiltà”. Ma tasselli decisivi, nella suddetta esasperazione, vengono aggiunti da altri due elementi. Da un lato, il persistente ruolo di reale “contropotere” rivendicato da “poteri neutri”, tra i quali in primo luogo la già citata magistratura ideologizzata, che sfrutta a scopo di costante destabilizzazione degli esecutivi sgraditi ogni spazio giuridico e ogni conflitto di potere tra Italia e Ue. Dall'altro, la crescente trasformazione di una parte cospicua della Chiesa italiana, del laicato cattolico e della Conferenza episcopale italiana in una gigantesca “Ong” che ha trovato nella difesa acritica, integralistica dell'immigrazione uno tra i più forti appigli alla sua torsione secolarista.

Contro una gestione sensata e accorta dei fenomeni migratori viene scatenata insomma in Italia una offensiva politico-culturale da parte di una composita coalizione unita soprattutto dall'obiettivo di impedire il consolidamento di una “democrazia governante”, e di assicurare l'egemonia di poteri non soggetti a responsabilità. Si tratta di una imponente recita opportunistica, oltre che culturalmente gregaria: incurante del pericolo di disgregazione radicale che il paese corre - come tutto l'Occidente - se dall'utopia ideologica non si passa urgentemente alla consapevolezza che occorre innanzitutto difendere una civiltà in grave pericolo.