Silenzio sui persecutori. Sindrome Cinese del Vaticano
"Per quanto tempo ancora il Vaticano rimarrà in silenzio sulla Cina, sulla repressione a Hong Kong e sui rapporti sulle persecuzioni e i campi di rieducazione per i credenti nel resto della Cina?" Se lo chiede Robert Royal, su The Catholic Thing, una lunga analisi sui silenzi vaticani. E sulla sua nuova diplomazia progressista.
Per quanto tempo ancora il Vaticano rimarrà in silenzio sulla Cina, sulla repressione a Hong Kong e sui rapporti sulle persecuzioni e i campi di rieducazione per i credenti nel resto della Cina? E’ evidente che i personaggi della Curia romana (soprattutto il Segretario di Stato cardinale Pietro Parolin) che hanno stilato e l’accordo con il governo comunista, tuttora non pubblicato, si sono posti in un dilemma morale. Se parlano fuori dai denti, possono mettere a rischio l’accordo (che potrebbe non essere propriamente una tragedia, dato che ha causato finora solo una repressione ancor più violenta ed esplicita dei cristiani in Cina). Se invece non parlano, correranno il rischio ancor più grande di rendersi complici, in modo evidente, della repressione e della possibile eliminazione di un popolo di cattolici eroici, un popolo di confessori e martiri.
Non deve necessariamente andare in questo modo. Così come la macchina delle relazioni pubbliche del Vaticano è in grado di mettere in piedi campagne per promuovere le preoccupazioni di Papa Francesco sull’ambiente, gli immigrati, la pena di morte ed ora anche le armi nucleari, potrebbe anche fare lo stesso sui crimini contro i cristiani, in particolar modo i cattolici, una priorità più visibile e urgente per chiunque, ovunque nel mondo si presti attenzione alla leadership morale della Chiesa. E non solo la persecuzione in Cina, perché questa è in vari punti caldi in tutto il mondo e vi sono sempre più numerose aggressioni anti-cristiane anche nei Paesi occidentali, come la Francia e il Regno Unito, per non parlare del nostro Paese (Usa, ndr).
Molti cattolici si sono trovati giustamente a disagio quando il cardinal Marcelo Sanchez Sorondo, cancelliere del Pontificio consiglio delle scienze sociali, tornando da un viaggio in Cina, disse: “In questo momento, quelli che realizzano meglio la dottrina sociale della Chiesa sono i cinesi”. Il ché è talmente assurdo, considerando la repressione delle religioni, il danno all’ambiente, gli aborti forzati, la sorveglianza orwelliana sul suo stesso popolo, che non se ne può neppure sopportare il pensiero.
Gli errori di valutazione, tuttavia, non si limitano alla Cina. Il Vaticano, attualmente, sta perseguendo una linea di ferma contestazione anti-occidentale, contro i presunti “peccati” ambientali, di xenofobia e di rapacità economica di Europa e Nord America. Sono tutte questioni, queste ed altre, che meritano un dibattito. Ma il progressismo semplicistico che Roma ha adottato su queste complesse questioni, rende la sua posizione ampiamente inutile ed eminentemente ignorabile dalle nazioni nel mondo.
Nel frattempo, solo negli ultimi mesi, abbiamo assistito ad attacchi a chiese cattoliche, attacchi organizzati, non episodi violenti sporadici, in Cina, ma anche in Argentina, Cile, Nicaragua, Venezuela, Egitto, Iraq, India, Sri Lanka, Nigeria (dove molti preti sono stati rapiti) e l’elenco è ancora lungo. Ma Roma pone l’attenzione che meriterebbero queste minacce dirette alla Chiesa? Per richiamare i responsabili e i governi che rendono possibili questi attacchi, servirebbe un discorso più duro di un generico sentimentalismo, per cui tutti cerchiamo lo stesso bene comune e dobbiamo dialogare. Nemmeno nelle nazioni occidentali sappiamo più che cosa abbiamo in comune. L’idea che si possa fare appello a una qualche forma di principio umanitario comune, a livello internazionale, benché sia auspicabile, è sfidata davanti ai nostri occhi. Altre idee del bene (o del male) sono abbastanza dominanti nel mondo. E meritano di essere definite in termini franchi quando si traducono in violenza contro gli innocenti, che sia in Cina, in Medio Oriente o nei Paesi sviluppati. Non potremmo convertire quelli che condividono quelle idee ad una visione del mondo più mite, o più cristiana, con i nostri deboli appelli al dialogo e alla fratellanza. Per taluni, il dialogo e la falsa fratellanza, in assenza della morale e delle risorse militari per proteggere l’innocente dall’aggressore, sono solo sinonimi di debolezza e di decadenza.
Il cattolicesimo è sempre stato quell’unico corpo cristiano che conservava una visione forte e coerente sia della cooperazione con tutti gli uomini di buona volontà, sia la volontà di affrontare tutti coloro che non avevano buone intenzioni. Siamo ancora così?
Il papa ha fatto notizia, la settimana scorsa, di ritorno dall’Asia, quando ha dichiarato che: “L'uso delle armi nucleari è immorale e deve entrare nel Catechismo della Chiesa Cattolica. Non solo il loro uso, ma anche il loro possesso, perché un incidente o la follia di qualche leader politico, la follia di una sola persona, può distruggere l’umanità”. Tuttavia, per quanto buone possano essere le sue intenzioni (così come per il cambiamento del Catechismo sulla pena di morte e la sua opposizione alla pena del carcere a vita), sappiamo che le armi nucleari non verranno mai abolite. E per quanto possa sembrare brutto, in qualche modo è anche un bene. Nessun Paese potrebbe disarmarsi facilmente, se altri Paesi, che non condividono i valori di Papa Francesco, posseggono anch’essi armi di distruzione di massa. E’ triste constatare questo dato di realtà sulla nostra natura umana, ma in questo momento della nostra storia, solo la deterrenza reciproca previene il ricatto nucleare o l’uso delle armi atomiche. Cosa farebbero con le loro armi nucleari la Cina o la Corea del Nord, se gli Stati Uniti non ne dovessero avere?
Come Winston Churchill intuì immediatamente decenni fa, quando ebbe notizia dell’attacco atomico statunitense sul Giappone, “d’ora in avanti, la sicurezza sarà la robusta figlia del terrore”. Una moralità realista deve trovare il suo posto nel nostro momento storico, perché è necessario che le armi nucleari siano nelle mani delle potenze mondiali più responsabili, come forma di deterrenza, esattamente per impedire che vengano mai usate. E’ bene che un papa ricordi al mondo che l’uso di armi di distruzione di massa sia un grave male morale. E che il loro stesso possesso sia moralmente problematico. Non è bene, tuttavia, lasciarci ingannare da visioni utopistiche e non realistiche, specie quando procedono speditamente le persecuzioni e le minacce contro i nostri fratelli nella fede e tanti altri innocenti nel mondo.
Non possiamo permettere che il nostro desiderio di relazioni migliori, con la Cina così come con il mondo islamico, o con le forze secolariste nella nostra società, ci impediscano di dire qualche dura verità e di agire di conseguenza. Non farlo, provocherebbe ulteriori sofferenze e morte a quelle stesse persone che noi abbiamo responsabilità di proteggere.
*Robert Royal, direttore di The Catholic Thing. Articolo pubblicato sul numero del 2 dicembre 2019 con il titolo The Vatican’s China Syndrome