Siena e l'insegnamento inascoltato di San Bernardino
Siena, dove oggi si consuma il dramma del Monte dei Paschi, ieri - 1425, quasi cinquant’anni prima della fondazione della stessa banca - Bernardino tuonava contro avidità e avarizia. “Non furaberis!”, non ruberai! Tutto questo Bernardino griderebbe ancora.
Siena, dove oggi si consuma il dramma del Monte dei Paschi, ieri - 1425, quasi cinquant’anni prima della fondazione della stessa banca - Bernardino tuonava contro avidità e avarizia. Scoprendo gli altarini del corporativismo amorale e dello spirito di fazione di Siena come di Firenze, e denunciando “L’Arte del cambio”, ossia le banche e i loro prestiti e interessi “che altro non sono che usura”. “Non furaberis!”, non ruberai! Tutto questo Bernardino lo gridava nella Siena e nella Firenze di mezzo millennio fa: lo griderebbe ancora. È l’occasione per vedere come Bernardino da Siena, indicato dagli storici come il più acuto economista del Medioevo, la pensasse in fatto di “cambi”, interessi e banche.
Per Bernardino un nome soltanto ha la vera causa d’ogni male: la smania di “ragunare” ricchezze; più di quanto fosse lecito a un cristiano. Oltre quanto fosse necessario a qualsiasi uomo. E infatti di una cosa egli è assolutamente intollerante: l’avidità, il denaro per il denaro. Gli procurava un disgusto profondo. E lo diceva. Magari nella città e nel momento sbagliati: la Firenze e la Siena dei ricchissimi mercanti del XV secolo. Che un po’ da quell’orecchio proprio non ci sentivano; un po’ gli rivoltavano contro la gente.
È qua il punto. Benché l’usura fosse lecita e alcuni comuni ne fissassero addirittura il tetto di interessi, comunque altissimo, per la Chiesa ciò era non solo irrilevante, ma era uno scandalo: ai cattolici proibiva tali pratiche.
Ma andiamo con ordine in questa, all’epoca, anarchica faccenda dei cambi e dei prestiti. Prendendo il caso di Firenze, occorre precisare che i commercianti per poter esercitare il loro mestiere, si costituivano in una sorta di corporazioni settoriali, piuttosto chiuse, parecchio autoreferenziali, assai prossime alla casta.
Queste erano dette Arte: Arte della Lana, Arte della Seta, etc. C’era anche l’Arte del Cambio: una sorta di banco cambi e prestiti, i cui iscritti erano i mercanti delle stesse altre Arti, che per l’occasione dunque si costituivano in banchieri. Per uno scopo pratico, che ci spiega una biografa di Bernardino, Iris Origo: “Se un anno il suo commercio era passivo, poteva rifarsi con le operazioni di cambio, fornendo ai clienti, per mezzo delle sue filiali in terra straniera, denaro o beni all’estero (senza che avvenisse un reale trasferimento di questi, ma prendendosi sempre la sua provvigione su ogni operazione).
Le cambiali, sotto forma di una semplice lettera (anziché di un atto formalmente redatto da un notaio) erano già nell’uso corrente, e si riconosceva che in genere il guadagno ricavato sulla loro compravendita era alto, ma precario…”. Ecco. E i mercanti che s’iscrivevano all’Arte del Cambio, erano i più prossimi all’accusa di usura, cosa che per molti di loro, sinceramente cattolici, era una iattura. Qua inizia il lavoro pastorale di Bernardino. Spinosissimo. Ma la dottrina cattolica alla quale il predicatore si rifaceva, era inesorabile. E chiara: qualunque interesse su un prestito era usura. Si dovevano sì concedere mutui, ma senza pretendere di lucrarne alcunché. Praticamente veniva messo in discussione tutto il pur esordiente sistema bancario. Una bella grana! In questo i cristiani trovandosi nella stessa situazione dei musulmani ai quali pure era proibito qualunque prestito a interessi. E con un legalismo tipico proprio del mondo islamico cercarono di aggirare l’ostacolo: se non l’interesse, il creditore poteva ricevere dal debitore un “dono”, purché registrato come tale; diversamente poteva ottenere una “ricompensa” per essere ripagato da eventuali ritardi nella restituzione del prestito (e si capisce: era obbligatorio “ritardare”).
Per questi banchieri cattolici, tale scorciatoia si rivelò una manna, che salvava capre e cavoli. Finché non arrivò Bernardino a rovinargli la festa. Insofferente più d’altri alle trovate ipocrite, li fulminò tutti: non era la prassi che contava, diceva, contava l’intenzione. “Spera ogni cosa che non è aprezabile con danari, ma se presti con patto e con intenzione d’averne qualche cosa (…) è contratto usuraio”. Anche sperare di lucrare un minimo sindacale da un prestito, era usura. È intransigente, perché tale è sull’argomento il Vangelo: il prestito è e deve rimanere un atto di buona volontà, di carità cristiana, di mano tesa al fratello in difficoltà. E non va pagato, perché la carità è gratis. È un credito concesso al cielo, che sarà restituito lasciata questa vita.
Non è esattamente la logica del mondo questa, figurarsi delle banche. Insomma, dinanzi a tali intransigenti principi cattolici, era come minimo immaginabile che vi fosse disparità tra teoria e pratica.
Nuovi sotterfugi furono brevettati dai prestatori di denaro, per salvare l’anima e il tesoro, o meglio: la faccia e il tesoro. Parecchi comuni tagliarono la testa al toro: affidando le licenze di cambiavalute a prestatori ebrei, che erano naturalmente esentati dalle proibizioni dei cristiani. Questi ultimi però ne diventavano habitué. E infatti il cliente cristiano depositava il suo denaro al banco dei giudei, ma specificava di “non voler sapere” come questi lo avrebbero impiegato e fatto fruttare. Quando arrivava il momento, ci tornavano a riscuote i “frutti”: sempre “senza voler sapere”. Non gli conveniva.
Di fatto era usura per conto terzi. Sotterfugi e ipocrisie per sfuggire alla propria coscienza, ma specialmente alle reprimende della Chiesa. Strano assai che non si siano accorti che se la propria coscienza può essere cieca, se il predicatore non ti vede, Dio sì. E per la verità, tutto questo raffinato ipocrita mercimonio lo vede pure il predicatore, se questi si chiama Bernardino da Siena.
Ma non era difficile, bastava osservare Firenze: dove il Comune non solo riconosceva ufficialmente la figura del prestatore di denaro, ma gli concedeva pure una licenza, sulla quale annualmente doveva essere pagata una cospicua tassa.
Bernardino scuote desolato la testa: “Siete tutti usurai!” dice ai fiorentini, e non si rassegna, tutto ciò non gli appare in alcun modo giustificabile. E se ne convince di più quando vede gli effetti collaterali di queste prassi untuose: “I più tra i mercanti…” scrive Iris Origo “trattavano affari la cui onestà, agli occhi di Bernardino, era per lo meno dubbia. Fra le operazioni da lui condannate vi erano la vendita di beni o gli scambi di valuta con pagamento non in contanti, ma a termine (cioè, giocando sulla eventuale fluttuazione del cambio fra il periodo dell’ordinazione e quello del pagamento), poiché, sosteneva il predicatore, questo altro non era che un mutuo mascherato”… “Ed è usura!” conclude Bernardino.
La chiusura di Bernardino verso certi traffici monetari non era però aprioristica, e non mancava di discernimento. Prendiamo il caso dell’emissione di obbligazioni da parte dello Stato. All’epoca era in gran voga il traffico di titoli di Stato a Firenze ma anche a Genova e a Venezia. In tali repubbliche, il governo imponeva ai cittadini le cosiddette “prestanze”, dei prestiti a favore dello Stato, per i quali a tempo debito venivano pagati i dovuti interessi. Anche se si usava la precauzione di chiamarli “libera donazione”. E qui nasceva spontanea la domanda: il contratto dei creditori dello Stato che ne percepivano gli interessi, era da considerarsi usurario? Bernardino qui un po’ stupisce tutti.
“No” dice, perché quel prestito lì è obbligatorio e nessuno può ritrarsi, dunque non è peccato.
Immaginiamo il respiro di sollievo di molti, a queste parole. Perché non hanno ascoltato il “ma” successivo: “ma”, continua infatti Bernardino, dipende “dall’intenzione”. Se uno presta soldi allo Stato perché non può altrimenti, pace! Ma se, obbligato o meno, li presta dando per scontato, o auspicando, che gli verranno corrisposti gli interessi, è contratto usurario, ed è peccato. Bernardino lo sa: sta parlando a gente che fa orecchie da… mercante. Ma è questa la via di perfezione, la strada “stretta” per la quale si deve passare, in qualsiasi ambito della vita, per essere dei cristiani, per meritare il premio eterno. Del resto, “in paradiso non s’arriva in carrozza”.
Difficilmente poi ci si sale con sacchi d’oro sulle spalle, che semmai ci inchiodano su questa terra delle vanità. Lo diceva pure Cristo, a proposito del ricco, del cammello e dalla cruna d’ago. Il fatto è che a Bernardino stava a cuore la salvezza delle anime, attraverso la santificazione nella vita quotidiana, in ogni suo ambito. E anche il commerciante o il banchiere avevano il dovere di santificarsi nel proprio lavoro, che doveva restare sempre un mezzo e non assurgere a fine ultimo: non erano dispensati, in quanto commercianti, o banchieri, dalla comune legge morale dei cristiani, né il “guadagno” è una giustificante.