Sfollati in Congo: una crisi umanitaria ignorata
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6,9 milioni di persone, in gran parte residenti nell’est del Paese, ormai da decenni teatro di conflitti e violenze. Gli aiuti non bastano e gli interventi Onu sono rari e controproducenti.
Sono circa 110 milioni nel mondo le persone attualmente costrette a vivere lontano da casa, messe in fuga da persecuzione, conflitti, violenza, violazioni dei diritti umani o eventi che turbano gravemente l’ordine pubblico. Lo ha rivelato l’ultimo rapporto dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr), relativo alla situazione mondiale dei profughi a metà 2023.
5,9 milioni sono palestinesi. Per loro, che all’epoca erano 750mila, nel 1949 è stata creata l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione per i rifugiati palestinesi (Unwra) che da allora finanzia servizi scolastici e sanitari, programmi di microcredito, assistenza sociale e legale e 58 campi profughi, al costo previsto per il 2023 di un miliardo e 745 milioni.
Tutti gli altri – oltre 104 milioni – vivono sotto mandato dell’Unhcr che nel 2023 per assisterli dispone di circa 10 miliardi di dollari, posto che riesca a ottenere tutti i fondi chiesti ai governi e ai privati donatori. 30,4 milioni sono titolari dello status di rifugiato, 6,1 milioni sono richiedenti asilo, 5,3 milioni godono di protezione internazionale, per un totale di 41,8 milioni. Poi ci sono gli sfollati, o profughi interni, cioè le persone che si sono messe in salvo restando entro i confini nazionali. Sono di gran lunga il gruppo più numeroso: almeno 62,5 milioni.
Quella degli sfollati è una realtà che riceve meno attenzione internazionale. I mezzi di comunicazione si interessano soprattutto agli espatriati perché sono più visibili e anche perché creano preoccupazioni e problemi ai Paesi ai quali chiedono asilo, specialmente quando sono tanti, centinaia di migliaia o addirittura milioni, come di recente, nel 2022, è stato il caso dei profughi ucraini (5,9 milioni) e qualche anno prima dei siriani (6,5 milioni).
Tuttavia sono proprio gli sfollati a patire spesso le condizioni di vita più penose, le situazioni più disperate. Un motivo comune è che quasi sempre restano nelle vicinanze dei territori dai quali sono fuggiti perché sperano di poter presto rientrare a casa o comunque non hanno modo di andare più lontano: quindi sono solo relativamente al sicuro e solo a condizione che conflitti e violenze non si estendano coinvolgendoli e costringendoli di nuovo a spostarsi. Inoltre, e questo succede soprattutto in Africa, assisterli è difficile prima di tutto per gli ostacoli posti dalla carenza di infrastrutture: dalle strade e piste percorribili durante tutto il corso dell’anno alla disponibilità di corrente elettrica.
Ma ci sono problemi ancora più gravi, irrisolvibili. Non sempre, se si tratta di profughi in fuga dai conflitti armati e dalla violenza jihadista, i contendenti accettano le richieste internazionali di concordare una tregua o di aprire dei corridoi umanitari che consentano ai soccorritori di raggiungere gli sfollati per rifornirli dei generi di prima necessità di cui hanno bisogno o per trasferirli in luoghi più sicuri. Al contrario, succede che i convogli umanitari vengano fermati dai combattenti, siano costretti a pagare dazio consegnando una parte degli aiuti, oppure che siano attaccati e che gli aiuti vengano razziati e persino i mezzi di trasporto. L’avidità e l’indifferenza per la sorte degli sfollati arriva al punto che, complici funzionari e autorità locali, quantità enormi di aiuti sono stornati, spartiti e venduti. La scorsa estate sia in Etiopia, dove gli sfollati sono più di 4,3 milioni, che in Somalia, dove superano i 3,8 milioni, alcuni Paesi ed enti hanno sospeso per mesi la distribuzione di aiuti dopo aver scoperto che erano troppi quelli rubati.
Si pensa che sia la Siria ad avere il primato del numero di sfollati, più di sei milioni. Ma c’è una crisi umanitaria quasi del tutto ignorata e che invece supera tutte le altre in quantità di vittime, di sofferenze patite e di insufficienza abissale di aiuti. È quella degli sfollati della Repubblica democratica del Congo: 6,9 milioni di persone, in gran parte residenti nell’est del Paese, nelle province di Ituri, Nord Kivu e Sud Kivu confinanti con Uganda e Rwanda, che ormai da decenni sono teatro di conflitti e violenze per la presenza di decine di gruppi armati che inferiscono quasi incontrastati sui civili e li fanno vivere nel terrore e nella precarietà. Gli interventi delle truppe governative e dei caschi blu della missione di pace Monusco, la più grande missione Onu, sono rari e insufficienti e anzi infliggono ulteriori violenze ai civili al punto che la popolazione esasperata a volte si arma contro i caschi blu, ne attacca le sedi. Da alcuni mesi ha incominciato a chiedere che lascino il Paese.
Razzie, saccheggi, rappresaglie, attacchi ai villaggi che vengono incendiati e distrutti, agguati per le strade, stupri di massa, torture, esecuzioni sommarie sono l’incubo costante dal quale quasi sette milioni di persone hanno cercato scampo. Ci sono oltre un milione di nuovi sfollati dall’inizio del 2023 nella sola Nord Kivu a causa del peggioramento della situazione per l’intensificarsi degli scontri e degli attacchi degli M23, gruppo di combattenti Tutsi sostenuti, si dice, dal Rwanda, e degli Adf, un gruppo islamista originario dell’Uganda. «Da decenni – spiega Fabien Sambussy, capo della missione dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) – gli abitanti del Congo vivono in condizioni estreme di crisi. Il recente aggravarsi della situazione ha sradicato più persone in poco tempo di quanto sia mai successo».
Gli aiuti che arrivano non bastano, le missioni internazionali sono sotto finanziate. L’Oim, ad esempio, da giugno è riuscita a costruire 3.347 rifugi di emergenza per gli sfollati e a distribuire 7.715 kit contenenti prodotti non alimentari. Una goccia nel mare.
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