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DIRITTO E STORTO

Separazione possibile, matrimonio indissolubile

Una lettera a Corrado Augias su "Repubblica", con relativa risposta, crea confusione su nullità, divorzio, separazione nella Chiesa.

Attualità 19_03_2012
Corrado Augias
 
È istruttiva, per le molte incomprensioni diffuse che vi sono contenute, una recente lettera a «Repubblica» a cui ha dato risalto Corrado Augias, rispondendole nella sua rubrica.
Una lettrice del quotidiano riferisce che il tribunale ecclesiastico le ha comunicato «l’annullamento» del suo matrimonio.

Qui c’è il primo errore. A dispetto dell’espressione erronea spesso corrente, il matrimonio cattolico non viene mai annullato, bensì dichiarato nullo (come in parte spiega anche Augias nella risposta alla lettrice). Parlare di annullamento del matrimonio cattolico indissolubile significa designare un vincolo che c’è stato e che viene sciolto, il che equivarrebbe a dire che ciò che è sempre indissolubile è dissolubile in certi casi (una contraddizione); invece parlare di nullità significa che quel legame non c’è mai stato e che è stato possibile accertarne l’inesistenza.

Poi la signora scrive che le ragioni per cui ha chiesto il divorzio sono le violenze che subiva, mentre la sentenza canonica ha dichiarato lei un’approfittatrice ed immaturo (al tempo della celebrazione del matrimonio) il suo ex.

Qui non si capisce. La signora ha chiesto il divorzio, la dichiarazione di nullità (o l’ha chiesta il suo ex?) o tutte e due le cose? A parte questo, fatta salva tutta la compassione possibile per la signora se è stata picchiata (e senza poter ovviamente entrare nel merito sul suo essere stata o meno approfittatrice), bisogna chiarire  la differenza tra divorzio e separazione, che in certi casi è giustificata (diciamolo subito), e le ragioni dell’indissolubilità del matrimonio.

Quanto all’indissolubilità, senza addentrarci sul piano teologico, sul piano laico il punto è il seguente. Bisogna riflettere sul contenuto del consenso che gli sposi esprimono nel momento del matrimonio. Infatti, il matrimonio nasce dal libero consenso dei coniugi  che si promettono:
 
a) l’amore esclusivo, la fedeltà sempre («prometto di esserti fedele sempre»), cioè qualsiasi cosa accada, cioè anche se tu mi picchierai, anche se mi tradirai, anche se impazzirai, ecc. Ora, che cosa significa amare? Ovviamente la questione è immensa, ma il significato della parola «amarti» pronunciata al momento del matrimonio («Prometto di […] amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita») è questo: non già «prometto di provare sempre slancio emotivo, trasporto, attrazione, ecc., verso di te», bensì «prometto di volere sempre il tuo bene e di cercare (per quanto possibile) di realizzarlo, per tutta la vita e prometto di esserti sempre fedele»;

b) l’apertura alla generazione ed educazione dei figli.


Chi non promette queste cose o le promette senza essere sincero (o nasconde qualcosa all’altro prima del matrimonio), o non è consapevole del significato di quanto sta facendo (forse è stata questa l’immaturità di cui parla la sentenza canonica che indigna la signora), non è mai stato sposato. È per questo che in simili casi si rileva la nullità: non si verifica una rescissione del legame matrimoniale e dunque non c’è divorzio, bensì solo la presa di consapevolezza che tale legame non è mai sussistito.

Il punto a) è quello decisivo per il presente discorso. Se sono sinceri, se sono consapevoli (e questo dipende molto dai corsi di preparazione al matrimonio, non di rado pessimi), coloro che si sposano in Chiesa promettono di amarsi (nel senso sopra esposto) in modo esclusivo per tutta la vita, qualsiasi cosa accada, dunque anche se l’altro mi picchierà, mi tradirà, diventerà pazzo, anche se cambierà e diventerà completamente diverso, ecc.

Se non erano consapevoli o se non erano sinceri o se hanno taciuto cose importanti della loro vita, il matrimonio non c’è mai stato; viceversa è indissolubile, perché essi hanno preso un impegno solenne ed irrevocabile, quello di essere indissolubilmente vincolati. Sono loro che hanno solennemente detto: «La mia promessa è irrevocabile» e sono loro che hanno solennemente promesso: «sarò a te sposato indissolubilmente, qualsiasi cosa accada, anche se mi picchierai, ecc.». I coniugi che si sposano in Chiesa hanno di fatto promesso: «io non divorzierò mai da te, qualsiasi cosa accada». La formula recitata è molto più bella («prometto di esserti fedele sempre, nella gioia e nel dolore», ecc), ma la sostanza è questa. Se essi non ne sono consapevoli, da un lato chi li ha preparati è in stato di grave colpa, dall’altro essi non sono davvero sposati.

Si obbietta: se X picchia Y è assurdo, è disumano, che Y non possa divorziare da X.
Ma qui entra in gioco la differenza tra separazione e divorzio. Quando si giunge ad una situazione in cui la stessa convivenza è diventata veramente insostenibile, la separazione è giustificata perché i coniugi non hanno promesso di coabitare insieme per tutta la vita, quindi possono separarsi se la convivenza provoca loro realmente del male.

La lettrice scrive altresì ad Augias che suo figlio «non vuole considerarsi annullato» e che, anche per questo, non vuole più andare in parrocchia né frequentare religione a scuola. Qui non è chiaro che cosa intenda dire la signora.
Se «annullato» significa che un giudizio di nullità fa per la Chiesa decadere un figlio dalla condizione di figlio, non è affatto ciò che afferma la Chiesa. Inoltre, per la Chiesa i genitori mantengono l’obbligo gravissimo di provvedere al figlio.

Se «annullato» significa che la Chiesa si disinteressa della tutela giuridica dei figli, bisogna sapere per contro che la Chiesa ammette (cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2383) in certi casi persino la richiesta di divorzio civile, quando quest’ultimo risulti essere l’unico modo possibile per assicurare certi diritti legittimi, quali la cura dei figli o la tutela del patrimonio. In ciò non c’è contraddizione con quanto poc’anzi detto sull’indissolubilità del matrimonio. Infatti, colui che in questi casi chiede il divorzio civile deve, di fatto, considerare perdurante il vincolo coniugale e non formare una nuova unione.

Infine, un accenno alla risposta di Augias, il quale, per perorare l’introduzione nel nostro Paese del divorzio lampo, scrive che «a parere unanime [corsivo nostro] degli psicologi sono proprio i tempi lunghi dell’attuale divorzio la principale causa di disagio per i figli». Qui, onestamente, c’è da trasecolare. Sembra che per Augias i figli non vedano l’ora che i loro genitori separati ottengano il divorzio, quando invece è spessissimo vero il contrario. Solo in rari casi di conflitto veramente forte dei genitori la loro separazione per il figlio è meno peggiore, meno foriera di sofferenze, rispetto al loro permanere insieme ed entrambi con lui. Ancora più rari sono i casi in cui il divorzio, che si aggiunge alla separazione, risulta di beneficio per i figli.

Intendiamoci: su quasi qualsiasi questione è possibile trovare studi sociologici che dicono tutto e il contrario di tutto. Bisogna vedere ovviamente se sono stati condotti con tutti i crismi, se il campione è significativo, se i ricercatori sono stati in buona fede, eccetera. Ma se una mole cospicua di lavori autorevoli, condotti secondo tutti i crismi, ecc. converge su una tesi, si può molto ragionevolmente ritenere che questa sia vera. Ed è proprio questo il caso: la maggior parte delle gravi difficoltà psichiche, relazionali, delle sofferenze (che producono anche molti suicidi), spesso grandi e durature, dei figli dei divorziati viene proprio dal divorzio dei loro genitori (e questa è un’altra ragione dell’indissolubilità), e ciò avviene anche quando poi in casa arriva un nuovo compagno/a del genitore con cui il figlio è rimasto a vivere (anzi, di solito la situazione peggiora). Lo scrivente di questi studi ne ha consultati molti e per mancanza di spazio qui può solo rimandare al recente valido articolo di Tommaso Scandroglio. Altro che «parere unanime degli psicologici» di cui scrive Augias.