Sentenza shock: il Mar Cinese non è della Cina
La Corte permanente di arbitrato (Cpa) sulla Legge del Mare dell’Aja ha stabilito che la Cina «non ha alcun diritto storico» sul Mar Cinese meridionale e la costruzione di atolli, fari e piste di atterraggio attuata arbitrariamente negli ultimi anni costituisce una violazione del diritto internazionale.
Si riaccende il confronto tra Pechino e gli altri Paesi rivieraschi del Mar cinese meridionale dopo la decisione della Corte permanente di arbitrato (Cpa) sulla Legge del Mare dell’Aja che, su richiesta delle Filippine, si è espresso sulle pretese cinesi di controllare quell’ampia area marittima nota come “Lingua di Bue”.
La Corte ha stabilito che la Cina «non ha alcun diritto storico» sul Mar Cinese meridionale e la costruzione di atolli, fari e piste di atterraggio attuata arbitrariamente negli ultimi anni costituisce una violazione del diritto internazionale. Per il tribunale internazionale la Cina ha violato i diritti e la sovranità nazionale delle Filippine e causato «gravi danni» alla barriera corallina con la costruzione di isole e atolli artificiali. Tra l’altro, la decisione del Tribunale del Mare è basata sulla Unclos, la United Nations Convention on the Law of the Sea, sottoscritta dai cinesi nel 1996, e che quindi dovrebbe essere vincolante anche in assenza di strumenti per imporre la decisione.
Come è facile immaginare la sentenza, pur se di carattere tecnico- giuridico, ha avuto un ampio impatto politico e potrebbe determinarne anche di tipo militare tenuto conto che la Cina pretende di imporre la sua sovranità e presenza militare sul 90% degli atolli e delle isole del Mar Cinese meridionale. Un’area certo ricca di risorse sommerse, per lo più petrolio e gas, ma che riveste un valore strategico per almeno altre due ragioni. Quelle acque vengono solcate dalle mega-petroliere che riforniscono di greggio l’economia Giapponese e sudcoreana. Inoltre, sul piano strettamente militare, il controllo di Spratly, Paracels e altri arcipelaghi consentirà a Pechino di minacciare direttamente la “collana di perle”, cioè quelle isole presidiate da forze Usa e giapponesi che si estendono dal Giappone fino a Taiwan e alle Filippine e che di fatto chiuderebbero in caso di guerra alla flotta di Pechino l’accesso all’Oceano Pacifico.
Ragioni che ben spiegano le reazioni alla decisioni della Corte dell’Aja. Consapevoli della debolezza giuridica delle lorio rivendicazioni e prevedendo il verdetto dell’Aja, i cinesi avevano da tempo lanciato una campagna di boicottaggio dell’arbitrato e dei lavori della Corte. Per Pechino si tratta di un giudizio «privo di fondamento» e senza alcun valore vincolante. Philippe Sands, legale per le Filippine all’arbitrato, parla di «giudizio chiaro e unanime», che sostiene lo Stato di diritto e le rivendicazioni legittime di Manila aggiungendo che si tratta di «una sentenza definitiva, si cui tutti gli Stati possono fare affidamento». L’agenzia ufficiale cinese Xinhua ha invece definito la Corte dell’Aja «priva di giurisdizione» e le decisioni prese «sono naturalmente nulle e prive di alcuna validità».
Dai Bingguo, ex consigliere di Stato cinese e diplomatico a Washington, ha affermato che il verdetto dell’Aja sulla questione del mar Cinese meridionale «è solo carta straccia». A far infuriare la Cina non sembra essere solo l’esito dell’arbitrato, ma il rigetto totale della Corte delle motivazioni di Pechino che ha sempre chiesto il «rispetto della storia». Il Tribunale ha invece stabilito che «non vi sono prove» che la Cina abbia «storicamente esercitato» un «controllo esclusivo» sulle acque e sulle risorse presenti nell’area. Inoltre, secondo i giudici, ogni eventuale ipotesi di legittimazione delle pretese cinesi è venuta meno con l’adesione di Pechino all’Unclos che fissa i limiti territoriali in base a criteri prestabiliti e rigidi.
Al contrario, Liu Zhenmin, vice-ministro degli Esteri, ha parlato di «Tribunale fallito», che non ha agito in modo imparziale, ma avrebbe giudicato dietro «controllo e compenso» delle Filippine. Inoltre, nessuno dei giudici era di origine asiatica e, per questo, nessuno di loro possedeva «il livello adeguato» di conoscenze relative alle geopolitiche del Continente per dirimere la controversia. Il ministro delle Difesa cinese, Chang Wanquan, ha invece riferito all'Alto rappresentante della politica estera europea, Federica Mogherini, che Pechino non accetterà alcuna proposta o azione basata sulla sentenza del Tribunale dell'Aja, assicurando che «la sovranità territoriale e gli interessi marittimi nel mar Cinese meridionale non sono colpiti dal responso arbitrale da nessun punto di vista». Il ministro, riferisce l'agenzia Nuova Cina, ha auspicato che l'Ue possa «avere una posizione oggettiva e imparziale» sulle questioni del mar Cinese meridionale.
La Mogherini, a Pechino per il summit Ue-Cina, ha risposto in modo vago e diplomatico (cioè irrilevante) senza prendere una posizione, ma limitandosi a rilevare che «la Cina è un partner importante e strategico» e auspicando relazioni sulla sicurezza più forti tra Pechino e Bruxelles e la soluzione delle controversie marittime «in modo pacifico». Più concreta la risposta di Washington, che proprio intorno alla crescente minaccia cinese sta rinnovando e rafforzando la sua alleanza con i Paesi del Sud Est Asiatico Pacifico. Secondo fonti statunitensi, se la Cina dovesse ignorare la sentenza sfavorevole, Washington potrebbe stabilire pattugliamenti navali perpetui nelle acque contese per garantire la libertà di navigazione. Come ha già fatto un paio di volte negli ultimi mesi inviando navi militari nelle Spratly e provocando dure reazioni diplomatiche a Pechino che ha esortato gli Usa a restare neutrali nelle dispute sulla sovranità degli arcipelaghi.
Analisti ed esperti sottolineano il timore degli Stati Uniti che la Cina possa rispondere dichiarando una zona di controllo e difesa aerea nel mar Cinese meridionale, come aveva fatto nel 2013 nel mar Cinese orientale. Ipotesi concretizzata dallo stesso Zhenmin, per il quale «nel caso in cui la nostra sicurezza si vedesse minacciata potrebbe essere necessario dar vita ad una Adiz nel Mar cinese meridionale, dipenderà dal livello della minaccia che riceviamo». La Adiz è una Zona di identificazione di Difesa aerea in cui i jet di Pechino impongono la sovranità bloccando il sorvolo a ogni velivolo indesiderato come se si trattasse dello spazio aereo cinese.
Altre nazioni dell’area, che con Pechino hanno gli stessi problemi delle Filippine (Giappone, Corea del Sud, Vietnam, Taiwan, Filippine, Brunei e Malaysia) potrebbero rivolgersi alla corte dell’Aja creando i presupposti per un’ulteriore emarginazione della Cina sul piano del diritto internazionale. Certo, la potenza comunista difficilmente verrà cacciata con le armi dalle isole di cui ha preso possesso: i suoi rivali sono militarmente più deboli per attaccarla e gli Usa difficilmente saranno pronti a entrare in guerra per le Spratly. Di certo però, la risposta al verdetto dell’Aja rappresenta un disastro politico e diplomatico per la dirigenza cinese. Il progetto di Pechino di ergersi a potenza stabilizzatrice di riferimento in Asia/Pacifico è stato compromesso da una corsa al riarmo soprattutto navale percepito come una minaccia da tutti i vicini.
L’arroganza con cui viene attaccato il Tribunale che applica una convenzione Onu firmata dalla stessa Pechino ridicolizza l’autorevolezza della classe dirigente cinese, pronta anche all’illegalità internazionale per sostenere il suo imperialismo, alla stregua di uno “Stato canaglia”. Sul piano militare aerei, navi e soldati cinesi resteranno forse alle Spratly ma la credibilità e il prestigio di Pechino hanno subito un colpo forse irreparabile.