Senato, la "ghigliottina" rischia di segare Renzi
Il governo sta perdendo la pazienza e vuol tagliar corto il dibattito (con la "ghigliottina" anti-emendamenti) anche su una riforma costituzionale quale è quella del Senato. Eppure dovrebbe occuparsi di altre priorità: la nuova crisi economica è in arrivo e il governo non mette mano ai provvedimenti necessari.
Che cosa c'è di più antidemocratico di un governo non eletto dal popolo, che pretende di cambiare la Costituzione imbavagliando le opposizioni parlamentari e addita come frenatori tutti coloro che osano esprimere opinioni difformi dal "pensiero unico"? Il contingentamento dei tempi nella discussione sulla riforma del Senato rappresenta un'alterazione dei meccanismi di confronto parlamentare e ricorda abusi già compiuti da precedenti governi. Si chiama "ghigliottina", o "tagliola", con termine leggermente meno stroncatorio, ed è già stata utilizzata da Enrico Letta all'epoca del pasticcio Imu-Bankitalia. Serve per fronteggiare l'ostruzionismo parlamentare e falcidiare l'attività delle opposizioni, riducendo al minimo lo spazio per gli emendamenti al testo-base proposto dal governo. È l'evidente segnale di un'indisponibilità dell'esecutivo ad aprirsi al confronto con tutte le opinioni e con punti di vista non strettamente allineati al suo.
Peccato che in questo caso sia in gioco la riforma di un'istituzione come il Senato, che rappresenta tutti i cittadini e che non è mai stata riformata nella storia d'Italia. Una maggiore ponderazione dovrebbe invece essere praticata anche da chi non vede l'ora di condurre in porto l'approvazione del testo. Si sa che fine ha fatto il governo Letta, che andava avanti a colpi di decreti legge e voti di fiducia e "ghigliottine". Oggi la storia si sta ripetendo. Il quadro sembra diverso, considerato che sulle riforme il premier attuale può contare sull'ampio appoggio di Forza Italia. Ma potrebbe non bastare.
I segnali di nervosismo dei giorni scorsi in aula, la marcia delle opposizioni (Sel, Movimento Cinque Stelle e Lega) al Quirinale, lo spauracchio agitato da Calderoli («Nonostante la ghigliottina, potremmo non farcela ad approvare la riforma del Senato entro l'8 agosto»), la parziale apertura di Renzi ai dissidenti («In ogni caso sulle riforme si farà un referendum») la dicono lunga sul clima surriscaldato che agita la maggioranza. Il Presidente del Consiglio sembra doversi guardare soprattutto dai suoi amici di partito. Lo stesso Presidente del Senato Grasso, autorizzando il voto segreto nelle votazioni per la riforma del bicameralismo, si è di fatto messo dalla parte dei cosiddetti "frenatori" ed è stato contestato da molti renziani. E ieri ha dovuto smentire accuse di disfattismo e faziosità che gli sono arrivate da più parti.
Renzi vorrebbe incassare entro l'estate il voto finale sul nuovo Senato, sia per rafforzarsi in Europa, sia per avere campo libero nell'approvazione della nuova legge elettorale. L'attuale "Consultellum" è di fatto un sistema proporzionale che non garantirebbe al premier la vittoria e la governabilità e quindi è per lui fondamentale approvare l'Italicum, proprio per poter minacciare le elezioni anticipate in caso di paralisi dell'azione di governo. Ora quell'arma è spuntata e lui lo sa. Quindi, con la sponda berlusconiana, intende arrivare già nel mese di settembre a ragionare sulle soglie di sbarramento, sulle preferenze e sul premio di maggioranza. Le forze minori, dagli alfaniani ai vendoliani, dalla Lega a Fratelli d'Italia e alle minoranze del Pd, lo hanno capito e puntano a smontare il disegno di approvazione dell'Italicum, anche perché temono di uscire fortemente ridimensionate dalle urne. Il "ricatto" di queste forze politiche sulla riforma del Senato è legato anche alla loro disperata battaglia per non essere spazzate via dal tripolarismo Renzi-Berlusconi-Grillo. I civatiani e i bersaniani, ad esempio, sanno che le liste Pd per le prossime politiche le farebbe Renzi, escludendo gran parte dei dissidenti e riducendo il partito a un Gran Consiglio all'insegna del piatto e asfittico unanimismo.
Altra partita tutta da giocare riguarda le regole per l'elezione del successore di Napolitano, che certamente nel 2015, forse già all'inizio, come ha peraltro lasciato intendere il diretto interessato, presenterà le sue dimissioni irrevocabili. Come verrà eletto il nuovo Capo dello Stato, visto che il Senato cambierà volto? C'è un accordo Renzi-Berlusconi anche sull'identikit del successore di Napolitano? Non è dato saperlo, ma qualcosa di più chiaro si percepirà certamente dopo l'estate, quando capiremo se i timori di una nuova crisi economica dell'eurozona si tradurranno in scompensi anche sugli indicatori economici italiani.
Il Fondo Monetario Internazionale ha modificato al ribasso le previsioni di crescita del Pil italiano (il governo parlava di 0,8%, il Fmi scommette su uno 0,3%), Bankitalia e Confindustria hanno denunciato il crollo del sistema produttivo italiano soprattutto al Sud, dove si è quasi dimezzato il Pil negli ultimi sette anni. Il rapporto deficit/Pil, che il governo Renzi ha promesso di contenere entro il 2,6% nel 2014, potrebbe innalzarsi fino al 3%, tetto massimo fissato dall'Europa, oltre il quale sarebbe necessaria una manovra correttiva, finora esclusa anche dal ministro Padoan, e fatta di nuove tasse o nuovi tagli alla spesa pubblica. Anche la locomotiva tedesca procede a ritmi forzati e perfino la Francia di Hollande si starebbe preparando a chiedere una deroga al patto di stabilità, visto che potrebbe avere problemi analoghi a quelli italiani. Mal comune mezzo gaudio, ma, se anche fosse, non dovremmo rallegrarcene e, soprattutto, non dovremmo in alcun modo essere indulgenti verso una politica che impiega mesi a parlare di riforma del Senato e trascura il confronto sulle misure per il rilancio dell'economia e del mercato del lavoro e sui provvedimenti urgenti per la riduzione dei costi della politica e della burocrazia e per il risanamento della disastrata macchina della giustizia.