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CINA

Sempre più difficile parlare liberamente di Tienanmen

Fino a quest’anno c’erano solo due zone, formalmente appartenenti alla Cina, in cui si poteva parlare liberamente del massacro di piazza Tienanmen (4 giugno 1989): sull’isola di Taiwan e a Hong Kong. Una nuova tornata di incriminazioni dimostra che non si può più commemorare a Hong Kong. E nemmeno sulla piattaforma Zoom

Esteri 13_06_2020
Hong Kong, la veglia per Tienanmen

Fino a quest’anno c’erano solo due zone, formalmente appartenenti alla Cina, in cui si poteva parlare liberamente del massacro di piazza Tienanmen (4 giugno 1989): sull’isola di Taiwan e a Hong Kong. Adesso se ne potrà parlare liberamente solo a Taiwan, finché la lunga mano della censura cinese non arriverà anche all’isola “ribelle”. Ma a Hong Kong, un’ondata di incriminazioni avvenuta questa settimana, dopo la manifestazione semi-clandestina del 4 giugno, dimostra come non vi sia realmente più libertà di ricordare le vittime del massacro di Pechino.

Il 4 giugno, anniversario dell’eccidio che stroncò il movimento per la democrazia in Cina, a Hong Kong si è sempre tenuta una veglia a Victoria Park. Masse ordinate di cittadini, con le candele in mano, anno dopo anno, hanno sempre ridato dignità alle vittime invisibili. Vittime di cui non si trova traccia neppure su Internet, che in Cina è pesantemente censurata. Quest’anno, a causa dell’epidemia di Covid, ogni assembramento è stato vietato anche il 4 giugno. Il tutto avviene in un clima di terrore, causato dalla nuova legge sulla “sicurezza nazionale”, scritta a Pechino ma imposta a Hong Kong, i cui contenuti ancora non si conoscono, ma già si temono.

Il 4 giugno di Hong Kong è stato caratterizzato da una fortissima tensione e da scontri fra polizia e manifestanti, per altri motivi rispetto alla commemorazione. Quel giorno, infatti, il Consiglio Legislativo (il parlamento locale) ha approvato la nuova legge sull’inno cinese. La nuova legge prescrive che “tutti gli individui e le organizzazioni” devono “suonare e cantare” la Marcia dei volontari, l’inno cinese, “nelle occasioni appropriate”, e tutti gli studenti delle scuole primarie e secondarie dovranno impararlo. La seduta parlamentare è stata subito interrotta perché due deputati dell’opposizione, Chu Hoi-dick e Ray Chan, hanno lanciato fiale di liquido puzzolente, causando l’evacuazione dell’aula. “Un assassino puzza per sempre – ha dichiarato Chu - Quello che abbiamo fatto oggi serve per ricordare al mondo che non perdoneremo mai al Partito Comunista Cinese l'uccisione della sua gente, trentuno anni fa”. Fuori dall’aula, intanto, la polizia interveniva contro i manifestanti che cercavano di costruire barricate in due punti della città.

In mezzo a tutta questa tensione, il ricordo di piazza Tienanmen è stato molto pacifico, in mattinata da gruppetti formati da non più di otto persone, per rispettare le leggi sull’epidemia, poi in serata da decine di migliaia di persone, che hanno rispettato le distanze e portavano la mascherina. La polizia non è intervenuta. Ma le autorità stavano semplicemente attendendo un momento migliore per agire.

A quasi una settimana di distanza dall’anniversario, a riflettori spenti, sono infatti stati incriminati per l’organizzazione della veglia non autorizzata il sindacalista e attivista Lee Cheuk-yan (animatore dell’evento, anche perché testimone oculare del massacro), Albert Ho (direttore del museo di Tienanmen) e Richard Tsoi, oltre all’imprenditore ed editore Jimmy Lai. Non è la prima volta, dall’inizio dell’anno, che finiscono nel mirino delle autorità. Jimmy Lai, per altro, non può lasciare la città. Il fondatore del quotidiano Apple Daily è infatti accusato di aggressione verbale durante la veglia di Victoria Park del 2017. Verrà per questo processato ad agosto, ma da maggio non può andare all’estero. La misura disciplinare è stata confermata in questa settimana. Dovrà anche affrontare altri processi per aver organizzato manifestazioni non autorizzate l’estate scorsa e adesso anche per la veglia non autorizzata per Tienanmen. Persecuzione giudiziaria? Abbastanza evidente, considerando l’importanza della sua stampa indipendente nell’animare le proteste contro il regime di Pechino.

Anche i social network non sono più un rifugio sicuro. In Cina lo sono mai stati, considerando la censura e lo spionaggio informatico che colpiscono ogni cittadino. WeChat e Weibo sono passati al setaccio dalla polizia postale cinese, mentre i più noti social occidentali (fra cui Facebook, Twitter, Whatsapp, Skype) sono vietati. Ma Zoom, la piattaforma per videoconferenze con base negli Stati Uniti, era finora accessibile ai cinesi che vivono nella Repubblica Popolare ed era ritenuta sicura soprattutto dai cinesi che vivono all’estero. Il 31 maggio una conferenza su Tienanmen organizzata da Zhou Fengsuo, uno dei leader della protesta giovanile del 1989, è però finita male: l’abbonamento di Zhou, benché regolarmente pagato, è stato disdetto su pressione di Pechino. Alla conferenza partecipavano infatti anche dei testimoni dalla Cina, fra cui alcune delle madri delle vittime di Tienanmen, quindi Pechino ha chiesto di far valere la “legge locale”. Col risultato, però, di danneggiare un abbonato in territorio statunitense.

Zoom ha poi ammesso di aver cancellato l’account di alcuni suoi utenti e di aver fermato alcune videoconferenze su Tienanmen su richiesta del governo cinese. Per la precisione, ha cancellato tre eventi, uno organizzato ad Hong Kong e due negli Stati Uniti. Un quarto evento, pur segnalato dalle autorità di Pechino, non è stato cancellato perché non coinvolgeva residenti in Cina. L’abbonamento di Zhoi Fengsuo è stato poi ripristinato dopo che la sua protesta ha provocato scalpore in tutto il mondo. Ma la domanda resta: quanto siamo già spiati dal Grande Fratello di Pechino?