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FINE VITA

Sedazione profonda, alcuni criteri per capire

La morte di Giovanni Custodero, giovane calciatore deceduto dopo essere stato sottoposto a sedazione profonda, conseguente ai dolori provocati da un tumore osseo, ripropone il tema della liceità o meno di questa pratica. Ovvero quando è misura corretta per alleviare il dolore e quando è atto eutanasico. 

Vita e bioetica 13_01_2020
Giovanni Custodero

Giovanni Custodero era un portiere di calcio a 5 di 27 anni di Pezze di Greco, frazione di Fasano (Brindisi), a cui nel 2017 avevano diagnosticato un sarcoma osseo. Terapie e addirittura l’amputazione di una gamba non sono riusciti a fermare il male. Ieri mattina il giovane è deceduto. Qualche giorno prima aveva pubblicato questo post: «Ho deciso di trascorrere le feste lontano dai social ma accanto alle persone per me più importanti. Però, ora che le feste sono finite, ed insieme a loro anche l'ultimo granello di forza che mi restava, ho deciso che non posso continuare a far prevalere il dolore fisico e la sofferenza su ciò che il destino ha in serbo per me. Da domani sarò sedato e potrò alleviare il mio malessere». La morte quindi pare che sia sopravvenuta a seguito di una pratica chiamata sedazione profonda, che elimina ogni dolore e può provocare il decesso della persona perché blocca i centri del respiro. La pratica è menzionata anche nella legge 219 del 2017.

Non vogliamo qui tentare di capire se la sedazione profonda praticata sul povero Custodero possa venire qualificata come atto eutanasico, dato che non abbiamo in mano tutti gli elementi concreti necessari per formulare questo giudizio, bensì richiamare i principi generali per comprendere quando la sedazione profonda sia lecita e quando non lo sia, configurandosi così, in questo ultimo caso, come atto eutanasico.

L’azione ricava la sua specie morale innanzitutto dall’oggetto, ossia dalla sua natura, dalla sua identità che è data dal fine prossimo ricercato. Se sedo profondamente una persona, sapendo che in tal modo vado a bloccare i centri del respiro, al fine di farla morire (fine prossimo) e così non farla più soffrire (fine remoto), l’atto è illecito, seppur praticato per un fine ulteriore buono (eliminare il dolore) e prende il nome di assassinio o eutanasia. Mai si può compiere il male, anche a fin di bene. Se invece il fine prossimo è quello di eliminare il dolore, tollerando l’effetto non ricercato della morte, l’atto può essere moralmente lecito, dato che è un atto terapeutico, a patto che si rispettino alcuni criteri che sono sintetizzati nel principio del duplice effetto che a sua volta si rifà al principio di efficacia o di proporzione. Il principio del duplice effetto si applica ogni qual volta che da un unico atto promanano più effetti giudicati di valore moralmente antitetici, cioè effetti insieme positivi e negativi (in realtà tutti i nostri atti provocano sempre sia utilità che danni). Andiamo ad analizzare questi criteri del principio del duplice effetto.

In prima battuta il fine ricercato, come abbiamo visto, deve essere moralmente lecito. Eliminare il dolore è fine moralmente buono. Eliminare la persona è fine moralmente malvagio.  Dunque esternamente è difficile (ma non sempre impossibile) comprendere se un medico pratica la sedazione profonda con intenzioni eutanasiche o meno, dato che l’atto materiale della sedazione è il medesimo sia quando la mano del medico è guidata da fini terapeutici sia quando è guidata da fini eutanasici.

Secondo criterio contenuto implicitamente nel primo: l’effetto negativo non deve essere ricercato direttamente (altrimenti confluirebbe nel fine prossimo), ma sopportato, ossia tollerato. Facciamo dunque il caso in cui il medico seda profondamente il paziente per non farlo soffrire e non per farlo morire: la morte sarebbe quindi effetto tollerato, non voluto. Terzo criterio, anch’esso implicitamente contenuto nel primo: l’effetto negativo non deve essere causa dell’effetto positivo. Nel caso qui trattato l’eliminazione del dolore deriva dalla sedazione profonda. Nel caso dell’eutanasia, invece l’eliminazione del dolore deriva dalla morte ricercata con la sedazione profonda.

Quarto criterio: occorre versare in stato di necessità. Per togliere quel particolare tipo di dolore non c’è altra strada che la sedazione profonda. Questo criterio è una delle spie migliori per capire se l’intento del medico ed anche del paziente è quello di usare della sedazione profonda per fini terapeutici o per fini eutanasici. Infatti alla sedazione profonda ci si arriva per gradi, è cioè l’ultimo step di un percorso graduale all’interno delle terapie antalgiche e, più in generale, delle cure palliative. Sottoporre di getto il paziente ad una dose massiccia di sedativi può essere un campanello di allarme per farci comprendere che il trattamento scelto è di tipo eutanasico.

Quinto criterio: l’effetto positivo (eliminazione dolore) e l’effetto negativo (morte) sono di pari valore o, meglio ancora, l’effetto positivo è più importante dell’effetto negativo. Questo ultimo criterio, in questo caso specifico che stiamo trattando, è quello più difficile da comprendere perché provocare, seppur indirettamente, la morte pare che pesi di più che eliminare il dolore. Dunque sembrerebbe che nessun dolore possa giustificare un, seppur involontario, accorciamento della vita. Parrebbe così se noi intendiamo il valore della vita in senso quantitativo, come lunghezza della vita. Ma il valore della vita non è dato dalla sua lunghezza, altrimenti una persona che ha 80 anni "varrebbe di più" di una persona che ne ha 8 (le persone non sono come il whiskey che più invecchia più è pregiato).

In realtà sul piano morale non bisogna riferirsi alla vita, cioè all’esistenza, ma alla dignità della persona: questo è il termine di paragone per comprendere se i nostri atti siano eticamente buoni o malvagi. L’assassinio è un male morale non perché accorcia la vita di una persona, bensì perché è un’azione non consona alla dignità personale sia dell’assassino che della vittima. Togliere il dolore è invece atto consono alla dignità della persona, ma occorre che gli effetti positivi, perché terapeutici, della sedazione pesino maggiormente degli effetti negativi dati dall’accorciamento del tempo da vivere.

Quindi, affinché l’effetto positivo dell’eliminazione del dolore sopravanzi per efficacia l’accorciamento della vita occorre che il dolore sia assai acuto e che il tempo da rimaner da vivere sia scarso. Fattori questi che configurano, in genere, il quadro clinico di un paziente terminale ormai moribondo, ossia prossimo alla morte, e molto sofferente. Allora, in condizione di stadio terminale di malattia assai dolorosa, ossia quando manca poco al decesso di una persona gravemente sofferente, l’accorciamento non voluto del poco tempo da vivere è sopravanzato dal valore dell’atto terapeutico che toglie il dolore acuto e che, come tale, è atto consono alla dignità della persona. Dunque dato che la persona molto sofferente è ormai prossima alla morte, il beneficio tratto dalla sedazione profonda sopravanza il danno del breve accorciamento del tempo da vivere.

Questo plus di valore è conforme alla preziosità intrinseca della persona. Ciò non toglie che la persona, in una prospettiva perfettiva delle virtù, voglia bere il calice amaro della sofferenza senza sconti e quindi lecitamente scelga di non sottoporsi alla sedazione profonda. Ciò per dire che, nel rispetto dei criteri prima indicati, scegliere la sedazione profonda può essere atto buono e scegliere di rifiutare la sedazione profonda può essere atto migliore. Di contro, se il paziente avesse moltissimo tempo da vivere, la sedazione profonda non sarebbe giustificata, eccetto nel caso di dolore acutissimo, insopportabile, perché non si può essere chiamati a sopportare un dolore che eccede le nostre facoltà psichiche e fisiologiche. Infatti non è predicabile nessun dovere morale in riferimento ad un’azione impossibile da compiere. Ad impossibilia nemo tenetur.