Se Renzi perde la maggioranza in Senato
Il premier punta tutto sulla riforma del lavoro e rischia di perdere la maggioranza in Senato. La vecchia guardia del Pd, guidata da D'Alema e Bersani gli si oppone. Al momento del voto, Renzi potrà contare su una maggioranza risicata di appena 7 senatori, nonostante sia già sceso a compromessi sull'articolo 18.
Matteo Renzi ha rotto gli indugi e nella direzione del suo partito di lunedì scorso ha parlato chiaro: si discute, ci si confronta, ma poi la minoranza si adegua alla maggioranza. Morale della favola: il premier si aspetta che i senatori Pd a Palazzo Madama votino compatti a favore della riforma del lavoro. E velatamente ha minacciato i dissidenti di non ricandidarli.
Prima dell’estate sembrava che il futuro dell’Italia fosse appeso al filo sottile della riforma del Senato. Pareva che senza togliere agli italiani il diritto costituzionale di eleggere i propri senatori il Belpaese non ce l’avrebbe fatta, sarebbe sprofondato nella recessione e si sarebbe definitivamente screditato agli occhi dell’Europa. Una mistificazione che in realtà è servita esclusivamente a chi sta a Palazzo Chigi per dimostrare agli osservatori stranieri che questa volta si fa sul serio.
Quella riforma è stata approvata, ci vorrà un anno affinchè diventi operativa, a meno di sconvolgimenti o semplici ripensamenti dell’ultim’ora. Nel frattempo, uguale enfasi viene posta in queste ore nella discussione sulla riforma dell’articolo 18. Qui, a onor del vero, la posta in gioco è decisamente più alta e decisiva per il futuro del Paese.
L’Europa ha lasciato intendere che non ci saranno deroghe rispetto al vincolo del 3% deficit-pil, a meno che l’Italia non dimostri un sincero slancio riformatore, cioè a meno che quelle eventuali gentili concessioni da Bruxelles non servano a sostenere riforme strutturali, in grado di rilanciare il mercato del lavoro, l’occupazione, la crescita economica. Renzi sa che questa è l’ultima chiamata per lui, prima che lo spettro del commissariamento da parte della troika non si materializzi definitivamente. E quindi sa di giocarsi il tutto per tutto.
Lunedì mattina, però, prima di riunire l’assemblea del suo partito, è stato ricevuto al Quirinale. Napolitano gli ha raccomandato prudenza ed equilibrio, bastone e carota. E questa raccomandazione l’ex sindaco di Firenze sembra averla ascoltata, se è vero che ai parlamentari dissidenti del suo partito e ai sindacati ha “aperto” in materia di reintegro per motivi discriminatori e per motivi disciplinari. Resterebbe, però, nell’impianto del Jobs Act ideato dal governo, la possibilità per gli imprenditori di licenziare per motivi economici. Si capirà nelle prossime ore se questo ammorbidimento del premier servirà a scongiurare lo sciopero generale di sabato 25 ottobre, già annunciato dalla Camusso, e, soprattutto, a evitare colpi di mano in Senato, dove la maggioranza di governo può contare su un margine risicato di soli 7 senatori.
L’impressione è che i dalemiani e i bersaniani venderanno cara la pelle. È vero che durante i lavori della direzione del partito la minoranza interna si è spaccata, con 20 voti contrari alla linea della segreteria e 11 astenuti. Quello che conta, però, è che entrambi gli ex segretari hanno rimproverato al Presidente del Consiglio scarsa disponibilità al confronto e una certa evanescenza nei risultati raggiunti durante questi primi mesi di governo. Che sia un avvertimento?
Lo si capirà solo quando inizieranno le votazioni in aula sui singoli articoli della riforma del lavoro, non solo sull’art.18, ma anche sulle tipologie di contratti precari e sugli ammortizzatori sociali, tanto per indicare altre superfici di attrito tra le diverse componenti della sinistra.
Ma in realtà Renzi ha due armi da usare nei confronti dell’opposizione interna: anzitutto il voto di fiducia. Se dovesse percepire crescente insoddisfazione nei gruppi parlamentari, potrebbe porre la questione di fiducia sul Jobs Act, magari motivandolo con l’urgenza di approvarlo per evitare una manovra aggiuntiva con nuove tasse, e ottenere il placet del Parlamento. Incassata la vittoria, potrebbe andare in Europa e trattare con gli alleati da una posizione di forza.
La seconda arma è più rischiosa e passa per un accordo alla luce del sole con Berlusconi, non solo sulle riforme istituzionali, ma anche sul lavoro. Forza Italia si è detta pronta a votare il Jobs Act nella sua formulazione originaria, a patto che non venga stravolto. Se il “soccorso azzurro” si rivelasse decisivo anche numericamente, a quel punto un problema politico si porrebbe. Secondo Civati, Fassina e l’ala più antirenziana del Pd, il governo in quell’ipotesi non potrebbe più andare avanti come se nulla fosse e una scissione nella sinistra non sarebbe più soltanto un’ipotesi di scuola.
Renzi sta dimostrando di puntare segnatamente ai voti moderati, tacciando di ideologismo e conservatorismo la vecchia guardia del Pci-Pds-Ds-Partito democratico. Le difficoltà del centrodestra di individuare un leader per il dopo-Berlusconi potrebbero portare gran parte di quell’elettorato a “investire” sull’ex sindaco di Firenze, considerando le crescenti distanze che lo separano dal mondo comunista. All’attuale premier, tutto sommato, converrebbe marginalizzare le anime troppo a sinistra nel suo partito e puntare a saccheggiare l’area moderata, con ampi settori di elettorato ormai in libera uscita. Riuscirà nell’intento? Se nel 2015 si arrivasse ad elezioni anticipate forse sarebbe troppo presto per portare a compimento il processo, ma di qui alla scadenza naturale della legislatura ne passerebbe tanta di acqua sotto i ponti e gli attuali schieramenti potrebbero scomporsi e ricomporsi su nuove basi.