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DOMANDE

Se per Veronesi il cancro è la prova che Dio non esiste

«Come Auschwitz anche il cancro per me è la prova che Dio non c'è». Umberto Veronesi si racconta nel libro Il mestiere di uomo, da oggi nelle librerie. Un libro "forte" che lancia domande pungenti, anche se le risposte dell'oncologo non ne sono all'altezza. Ma resta l'interrogativo su quale senso dare al male e al dolore.

Vita e bioetica 18_11_2014
Umberto Veronesi

Umberto Veronesi, chirurgo e direttore scientifico dell’Istituto europeo di oncologia, si racconta nel libro Il mestiere di uomo, da oggi nelle librerie. Repubblica ne ha offerto un’anticipazione e si può ben immaginare che il libro mette per iscritto quando è duro e drammatico Il mestiere di vivere, se il paragone con Cesare Pavese non suonasse un tantino pretenzioso e sproporzionato. Ma il chirurgo Veronesi, ed è verità indiscutibile, è bravo a guarire il cancro mentre Pavese si arrese davanti all’impossibilità di curare il tumore che l’esistenza è in se stessa. Storia drammatica ma affascinante, quella che il professore racconta, perché ci rimette in faccia questioni forti e disperate che la cultura del Novecento ha sempre rimpallato senza dare mai offrire risposte convincenti. Però, più che nelle risposte, è nella domanda che si nasconde la verità, se non tutta almeno una sua piccola scheggia. Al centro dell’indagine di Veronesi ci sono il male, il dolore e le loro crudeli pretese di spadroneggiare sulle vite degli uomini. 

Ma soprattutto, c’è l’impossibilità ad accettare il male che attraversa la storia universale, e pure quello che distrugge cellule e corpi individuali, facendolo convivere con l’esistenza di un Dio pietoso e onnipotente che ci obbliga a percorrere l’immensa metastasi umana come viatico per arrivare a lui. Disumano, assurdo, impossibile. E allora, Padre nostro che sei Cieli, restaci. Tentazione che l’oncologo condivide con altri prima di lui, come Hannah Arendt prima e Papa Benedetto XVI molti anni dopo quando si chiesero: «Dov’era Dio ad Auschwitz?». Veronesi, però, non è andato a leggersi le loro risposte, ed è un vero peccato. «Non saprei dire qual è stato il mio primo giorno senza Dio», scrive il chirurgo. «Sicuramente dopo l’esperienza della guerra non misi mai più piede in una chiesa, ma il tramonto della fede era iniziato molto prima».

Eppure, Il mestiere di uomo rivela nella sua trama quella piccola scheggia capace di straziare cuore e intelligenza lasciando una ferita non facilmente rimarginabile con qualche punto di sutura. La risposta di Veronesi non è però altezza delle attese, è quanto di più ideologico e antiscientifico possa risultare, una resa incondizionate ai pregiudizi atei gnostici che non fa onore alla sua ricerca. Anche, «la scelta di fare il medico», confessa Veronesi nel libro «è, profondamente legata in me alla ricerca dell’origine di quel male che il concetto di Dio non poteva spiegare».  Ed è pure l’intimo memoir di un credente deluso, di un ex cristiano che non ritiene ragionevole credere forse perché il suo orologio delle fede è fermo all’infanzia, quando «Don Giovanni era molto fiero di me: da bambino non perdevo mai una messa né un rosario, ero un inappuntabile chierichetto ed ero persino stato elevato al grado di “paggetto”, una vera e propria onorificenza nella Chiesa di allora. Per questo fu lui, forse, a soffrire di più quando, molti anni dopo, gli rivelai che avevo perso la fede».

Non solo la fede non dà risposte, ma impedisce pure di ragionare: questa è la tesi, anche se mai dichiarata da Veronesi in tali termini, che sottende tutto il libro, chiave di lettura di tutti i suoi incontri (da don Giovanni, l'amato parroco di campagna, all'uomo ombra che dal carcere a vita gli scrive lunghe lettere, da Mina e Piergiorgio Welby, alle donne compagne di molte battaglie agli abitanti della casa “stregata” di Mammoli).  Tesi pervicacemente perseguita, fino a quella grottesca affermazione che titoleggia sulle frettolose recensioni del libro: «Allo stesso modo di Auschwitz, per me il cancro è diventato una prova della non esistenza di Dio. Come puoi credere nella Provvidenza o nell’amore divino quando vedi un bambino invaso da cellule maligne che lo consumano giorno dopo giorno davanti ai tuoi occhi?». Terribile, pare di risentire Ivan ne I Fratelli Karamàzov di Dostoevski: «se tutti devono soffrire per comprare con la sofferenza l'armonia eterna, che c'entrano qui i bambini?… Infatti, tutto un mondo di conoscenza non vale le lacrime di quella bambina al suo “buon Dio”».

Dite: non ha ragione Umberto-Karamàzov-Veronesi? Più che mai, oggi il dolore innocente è rivelazione dello strazio che lacera il mondo, viola la dignità umana, oscura la luce del bene. Che cosa è Dio se i bambini sono sacrificati? Dov’è Dio se la loro luce è soffocata dalla tenebre? Chi è Dio se la loro anima è lacerata? «Ci sono parole in qualche libro sacro del mondo, ci sono verità rivelate, che possano lenire il dolore dei suoi genitori? Io credo di no», risponde l’oncologo «e preferisco il silenzio, o il sussurro del “non so”». 

La scienza vive nel dubbio e il silenzio dello scienziato Veronesi sarebbe pure accettabile (anche se umanamente cinico e insopportabile) se servisse per arrendersi a un Mistero che niente e nessuno potrà mai possedere. Ma il silenzio del professore precede il chiasso di una presunzione infinita, quella di rinchiudere la fede nel recinto dell’irragionevole, dopo averne tracciato una caricatura grottesca.  E non è falso affermare, come lui fa, che la fede santifica il tumore fino a identificarlo «come una manifestazione del volere di Dio»? In quale libro sacro ha letto questa bestemmia? Ecco il pre-giudizio, l’ideologia e l’anticlericalismo più fanatico. Dunque, l’oncologo, che quando abbandona la sala operatoria non è nuovo a questi tuffi nel vuoto, dovrebbe lasciare queste favole e tornare alla realtà. 

Più di un secolo fa, il genio russo di Fedor Dostojevski   si chiedeva: «Un uomo colto, un europeo dei nostri giorni può credere, credere proprio, alla divinità del figlio di Dio, Gesù Cristo?». La questione per Veronesi, pure se espressa in altra forma, è la stessa. E cioè: la ragione, come capacità di indagare il reale, dunque anche il male e il dolore, basta a se stessa oppure rinvia ad “altro”? La fede presuppone la ragione e  il cristianesimo, come non si stanca di ripetere Benedetto XVI, è entrato nella storia come un Fatto reale, e solo come tale vi può permanere. La sua caratteristica, diceva Kierkegaard, è nel rendere contemporaneo e storico il Dio nato da donna, il Verbo rivestito dalla carne dell’uomo.  

Scandalosa è sempre la morte piccina perché neppure quella Nascita l’ha potuta evitare. Del resto, il Dio Bambino viene al mondo già in un assassinio annunciato: la Croce. E altre vite innocenti verranno spezzate per causa sua.  Tutto ciò è inaccettabile. Ma ci sarà mai un vaccino contro il virus del nulla e quale professor Veronesi ci potrà curare dal cancro della morte? Scrive Kierkegaard: «Per amore di quest’uomo, Dio viene al mondo, nasce, soffre, muore e questo Dio prega, quasi supplica l’uomo di accettare l’aiuto che gli viene offerto… Chiunque non abbia abbastanza coraggio umile per osare di credervi si scandalizzerà».  Ecco la questione solo l’umile povertà conviene alla ragione: non ci siamo fatti da soli.  Il Mistero è semplice per chi lo vuole vedere. Anzi, è lui che ci guarda.  La percezione nauseante della contingenza,  per cui “tutto è di troppo” (riecco Sartre) è invece il nostro angusto sentimento delle cose. 

Lo scandalo del male è insuperabile, ma può essere reso meno pungente da un abbraccio, dalla certezza che uno scopo buono e positivo esiste. La verità  a volte umilia e respinge, c’è bisogno di affezione e bellezza per esserne attratti.  Dio non si è fatto uomo per “spiegarci” il dolore. Di più: lo ha riempito di significato con la sua compagnia. Forse il povero don Giovanni l’aveva spiegato al giovane Umberto che però, una volta diventato il professor Veronesi, se l’è scordato.