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THE INTERVIEW

Se l'America si censura nel nome della sicurezza

Gli hacker che hanno colpito Hollywood sapevano di attaccare un bersaglio morbido. Altri casi precedenti, come la tragica vicenda dell'uccisione dell'ambasciatore in Libia, dimostrano che gli Usa sono già pronti a rinunciare alla loro libertà di espressione nel nome della sicurezza.

Esteri 21_12_2014
New York Post: "Kim Jong ha vinto"

Incredibile ma vero: la dittatura più isolata della Terra, la Corea del Nord, è riuscita a esportare la sua censura. Negli Stati Uniti. A Natale doveva uscire un film commedia, “The Interview” di Evan Goldberg, con Seth Rogen e James Franco. I due protagonisti avrebbero impersonato due giornalisti che ottengono un’intervista con Kim Jong-un, il dittatore nordcoreano e vengono assoldati dalla Cia per assassinarlo. Ma né i nordcoreani, né tutti noi vedremo questo film, almeno per un bel po’ di tempo. Perché le minacce provenienti da hacker, che (stando all’indagine dell’Fbi) sono direttamente legati al regime di Pyongyang, sono tali e tante da aver indotto i cinema a rifiutarsi di proiettarlo e la Sony a ritirarlo.

La reazione del presidente Barack Obama si è fatta attendere per giorni. Solo dopo che l’Fbi ha confermato che l’attacco proveniva dalla Corea del Nord, la questione è diventata da criminale a politica (politico-criminale, sarebbe meglio dire) e l’inquilino della Casa Bianca si è palesato. Di fatto ha accusato la Sony di codardia, definendo “un errore” quello di ritirare il film. “Non possiamo avere una società in cui qualche dittatore, da qualche parte nel mondo, inizia ad imporre la sua censura – ha dichiarato Obama ieri, annunciando che – risponderemo (all’attacco degli hacker, ndr) in un modo che sceglieremo”. Una definizione vaga della sicurezza che ricorda da vicino il “non abbiamo ancora una strategia” contro l’Isis. Il problema è che i proprietari delle sale hanno subito minacce concrete, che parlano di “tanti altri 11 settembre”, invitano gli spettatori a stare alla larga dai cinema e addirittura tutti i cittadini che abitano vicino a lasciare le loro case. E i proprietari delle sale non si fidano a proiettare “The Interview” perché non sanno quanto sia concreta la minaccia, ma in compenso sanno che, in caso di attentato, perderebbero le loro proprietà e sarebbero legalmente responsabili per la morte di decine o centinaia di civili. La Sony, constatando il vuoto che ha attorno, vedendo che le sale si rifiutano di proiettare la produzione, non ha potuto far altro che rinunciare alla distribuzione. Difficile trovare una risposta politica valida, in una situazione di questo genere.

I nordcoreani si sono sentiti abbastanza forti da sferrare il colpo, perché ritenevano che gli americani fossero troppo impreparati, deboli e divisi fra loro per rispondere in modo deciso e corale. E purtroppo i fatti hanno dato loro ragione. Quando il 22 novembre scorso gli hacker nordcoreani hanno violato i server della Sony e hanno incominciato a ricattare i suoi dipendenti, diffondendo email di conversazioni personali, non c’è stata affatto una levata di scudi. Anzi, la stampa scandalistica ci è andata a nozze, non vedendo l’ora di mettere le mani a materiali così scottanti: insulti personali ad Angelina Jolie, discussioni su come intortarsi Barack Obama presentandogli film sui neri d’America e tante altre piccinerie private che hanno fatto la gioia di blogger e cronaca rosa. Nessuno si è reso conto che, pubblicando quelle mail, gli hacker stavano lanciando la loro prima, grave, intimidazione: vi conosciamo, vi teniamo d’occhio, ora obbedite o pagherete caro. La minaccia è diventata concreta il 16 dicembre successivo, quando gli stessi hacker, autonominatisi Guardians of Peace, hanno iniziato a minacciare di far saltare in aria i cinema che avrebbero proiettato The Interview. A questo punto era chiaro che non si trattasse più di una bravata, ma di un atto di terrorismo. Tuttavia, una petizione di solidarietà alla Sony, promossa da George Clooney, non è stata firmata da nessuno. L’attore e regista americano non vuol far nomi, ma dichiara di averla spedita a “molti e molto in alto”, fra produttori, registi e attori. Nessuno se l’è sentita di firmare. Non è solo una questione di mancanza di coraggio, a questo punto, ma una dimostrazione di quanta poca importanza sia attribuita al diritto di libertà di espressione. E forse è questa la peggior sconfitta subita dagli Stati Uniti.

Se gli hacker nordcoreani hanno deciso di attaccare, è perché i precedenti, dal loro punto di vista, erano più che incoraggianti. Il primo grande precedente è stata la sollevazione islamica seguita alla pubblicazione delle vignette su Maometto, il 30 settembre 2005, da parte della testata danese Jyllands Posten. Nei disordini che sono seguiti in tutto il Medio Oriente, nei primi mesi del 2006, pochi ha fatto notare come le proteste di piazza e i boicottaggi nazionali dei prodotti danesi fossero mosse politiche, promosse da movimenti e partiti islamici fondamentalisti, a cui poi si sono uniti governi arabi laici desiderosi di mostrare la propria fedeltà all’islam di fronte a opinioni pubbliche sempre più fondamentaliste. E’ stato un fenomeno politico, insomma, ma la vicenda è stata interpretata come un collettivo vilipendio alla religione, dunque il dibattito occidentale, anche negli Stati Uniti di George Bush, si è concentrato sui “limiti” della libertà di espressione. E non su come rispondere e come reagire in una guerra di informazione. Solo poche testate indipendenti di destra, negli Usa, hanno avuto il coraggio di ripubblicare quelle vignette. Ancor più grave è stata la vicenda dell’assassinio dell’ambasciatore americano in Libia, Christopher Stevens, l’11 settembre 2012. Anche in quel caso si è trattato di un atto di terrorismo pianificato da tempo a Bengasi da Ansar al Sharia, un movimento islamico legato ad Al Qaeda ed eseguito per l’anniversario dell’11 settembre 2001. Ma anche in quel caso, i terroristi hanno usato il paravento del vilipendio alla religione, cioè l’esistenza sul Web di un video satirico che dileggiava Maometto. Sostenendo la tesi della “rivolta di piazza imprevedibile”, quale causa dell’uccisione di Stevens, gli Stati Uniti hanno ufficialmente accreditato la tesi dei terroristi: è a causa della rabbia popolare scatenata da un video anti-islamico, che l’ambasciatore è stato ucciso. Il colpevole numero uno, in sintesi, è il video e non il terrorismo. E l’unica persona arrestata in tutta la vicenda di Bengasi, è Nakoula Basseley Nakoula, il cristiano copto autore del video “blasfemo”.

Il problema di questi due precedenti sta nell’aver confuso il vilipendio con la sicurezza nazionale. Il vilipendio alla religione è un reato riconosciuto, punito con una multa, nella stragrande maggioranza dei casi, in molti Paesi democratici, fra cui l’Italia. Negli Stati Uniti non si può essere condannati, né per blasfemia, né per vilipendio alla religione, perché entrambi non sono reati, una condanna sarebbe in contrasto con il Primo Emendamento, pilastro della Costituzione che garantisce la piena libertà di espressione. La condanna comminata a Nakoula Basseley Nakoula non riguarda il “vilipendio”, ma una sua precedente condanna, che risale al 1997 per fabbricazione di amfetamine. Il suo arresto è scattato per violazione dei termini della libertà vigilata, nel momento in cui ha mentito alle domande rivoltegli dall’Fbi. Solo un pretesto? Chiunque non viva in un paese libero lo ha pensato subito. E chiunque, indipendentemente dal paese in cui vive, ha potuto trarre una sola lezione da questa vicenda: negli Usa, nonostante il Primo Emendamento, si può limitare la libertà di espressione, e si può incarcerare chi ne fa uso “improprio”. Si accetta l’autocensura, nel nome della sicurezza nazionale. Per questo anche un dittatore isolato, come Kim Jong-un, ha pensato bene di approfittarne. La Corea del Nord, ovviamente, nega ogni responsabilità diretta nella minaccia terroristica, ma si contraddice nel momento in cui loda gli hacker. Di fatto, la piccola dittatura, si sta divertendo a prendere in giro il gigantesco nemico democratico. Gli ha imposto la censura su un film, tanto per cominciare. In futuro potrebbe fare altri danni, senza sparare un colpo.