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ARRESI

Se la strage al museo di Tunisi resta impunita

L’attacco dei terroristi dello Stato islamico al museo di Tunisi è rimasto finora impunito. Il commando proveniva dalla Libia, addestrato nei campi gestiti dall'Is a Sabratha, ma finora l’unica reazione dell’Italia e degli altri Paesi europei è rappresentata da un generico sostegno a Tunisi nella lotta al terrorismo.

Editoriali 26_03_2015
Le forze di polizia tunisine al museo

L’attacco dei terroristi dello Stato Islamico al museo di Tunisi che ha ucciso 19 europei tra i quali 4 italiani è rimasto finora impunito. Le autorità tunisine hanno confermato che il commando proveniva dalla Libia ed era stato addestrato nei campi gestiti dallo Stato Islamico a Sabratha, tra Tripoli e il confine tunisino, ma finora l’unica reazione dell’Italia e degli altri Paesi europei è rappresentata da un generico sostegno a Tunisi nella lotta al terrorismo. Attraverso il dialogo politico, ma anche con progetti concreti come ha sottolineato la Commissione europea.

Per la Ue l’attentato del 18 marzo «rafforza ancora di più la determinazione dell'Unione ad accompagnare la costruzione di una democrazia tunisina forte e a garantire la scurezza e lo sviluppo economico e sociale a beneficio di tutti i tunisini» di fronte «all'instabilità in Libia e l'elevato numero di tunisini che raggiungono i gruppi terroristici costituiscono una minaccia importante per la sicurezza del Paese». Nulla più delle solite dichiarazioni di circostanza quando invece l’attacco al museo dei jihadisti sancisce il passaggio dalle minacce formulate con proclami e testi propagandistici diffusi in rete in lingua inglese e più recentemente anche in italiano, ai fatti con l’uccisione di cittadini italiani inermi e colpevoli di essere “crociati”.  In termini di deterrenza l’assenza di una risposta militare decisa e ad alta visibilità mediatica rischia di essere interpretata come debolezza dai jihadisti facendoci apparire più vulnerabili e incoraggiando i terroristi a continuare a colpire cittadini e interessi italiani ed europei anche con l’intento di mobilitare nella lotta eversiva la comunità islamica che vive nella Ue.

Basta osservare i recenti precedenti per rendersene conto. La Giordania ha scatenato pesanti bombardamenti sulle postazioni dell’Is dopo che i miliziani del Califfato hanno bruciato vivo il tenente Muath al-Kaseasbeh. L’Egitto ha inviato cacciabombardieri e forze speciali eliportate su Derna, roccaforte libica dell’Is, uccidendo circa 150 miliziani e catturandone 55 in risposta all’esecuzione di 12 egiziani colpevoli solo di essere cristiani copti. Precedenti che dovrebbero far riflettere sull’opportunità per Italia e Ue di mettere a punto una risposta altrettanto eclatante per impedire che venga assimilata l’idea che è possibile uccidere impunemente cittadini italiani ed europei. Il dispiegamento annunciato da Roma del dispositivo denominato “Mare Sicuro” con navi, droni e aerei per la sorveglianza non costituisce una reale risposta militare al massacro di Tunisi. Il provvedimento ha un valore poco più che simbolico, consente di sorvegliare meglio gli spazi marittimi nel Canale di Sicilia per proteggere i mercantili, i pescherecci e le piattaforme off-shore che potrebbero diventare bersaglio di attacchi terroristici. “Mare Sicuro”. potrà forse rafforzare la percezione di sicurezza, ma non servirà né a combattere i terroristi né a fermare i flussi di immigrati clandestini che li arricchiscono.

Eppure, se davvero Roma volesse combattere lo Stato Islamico non mancherebbero certo le opzioni militari, di diversa intensità e alla portata delle forze armate nonostante i tagli al bilancio della Difesa abbiano compromesso addestramento, manutenzioni e capacità operative. La risposta più immediata sarebbe il via libera ai 4 bombardieri Tornado schierati in Kuwait e in volo sull’Iraq a bombardare le postazioni dello Stato Islamico: l’Italia è infatti l’unico tra la ventina di membri della Coalizione a negare l’impiego di armi sui suoi velivoli. Oppure si potrebbero inviare cacciabombardieri e forze speciali a distruggere i capi d’addestramento di Sabratha da dove sono partiti i killer dei turisti italiani e dove secondo l’esercito libico sono stati addestrati 4 mila miliziani tunisini e stranieri. Sul fronte nordafricano Roma potrebbe fornire aiuti e consiglieri alle forze armate tunisine ma pure affiancarle con aerei, elicotteri, contingenti di forze speciali e truppe scelte per sorvegliare l’area di confine con Libia e Algeria (dove è stata costituita una forza congiunta di 13 mila agenti e militari) o espugnare la roccaforte del gruppo qaedista Battaglione Okba Ibn Nafaa (aderente allo Stato Islamico) sul Jebel Chaambi, un’area montuosa nel settore di Kasserine da cui transitano traffici di armi e miliziani provenienti dalla Libia e dall’Algeria e dove sono stati recentemente uccisi o feriti alcuni soldati tunisini.

Del resto, come sottolineò nell’agosto scorso l’ex ministro della Difesa del governo Prodi, Arturo Parisi (Pd), è stata l’Italia a “dichiarare guerra” al Califfato quando il governo decise di fornire armi ai curdi e aderire alla Coalizione internazionale inviando aerei e consiglieri militari in Iraq. Dopo averla dichiarata, la guerra non siamo però pronti a combatterla.