Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Giovedì Santo a cura di Ermes Dovico
NOVARA

Se il vescovo consegna un prete alla pubblica gogna

Un prete della diocesi di Novara spiega perché chi vive situazioni familiari irregolari non può fare il padrino o la madrina. E monsignor Brambilla prende le distanze e si unisce alla condanna mediatica. Ma è così che fa un padre?

Ecclesia 24_06_2014
Monsignor Franco Giulio Brambilla

Fare il parroco non è mai stato facile, tanto più di questi tempi in Italia dove i cattolici da maggioranza assoluta si sono trasformati in una minoranza che, oltretutto, è affetta in gran parte da analfabetismo religioso. Però se a questo si aggiunge che oggi un parroco – colpevole solo di spiegare il catechismo - può anche aspettarsi che il vescovo, per mantenere buoni rapporti con i “nuovi pagani”, lo esponga al pubblico ludibrio, bè, allora la faccenda si fa davvero difficile.

L’ultimo caso è di questi giorni e riguarda un anziano parroco del paesino di Cameri, nella diocesi di Novara. Anche lui deve fare i conti con tante situazioni familiari irregolari: un bel problema quando ci sono battesimi, comunioni e cresime e bisogna spiegare agli aspiranti padrini e madrine che certe situazioni sono incompatibili con l’impegno che dovrebbero assumersi. Alcuni parroci non ci provano neanche, ammettono tutto e tutti e chi s’è visto s’è visto. Altri, che hanno a cuore il bene dei ragazzi e delle persone che hanno di fronte, provano a spiegare: magari è un’occasione perché qualcuno almeno intuisca che il cristianesimo è una cosa seria, qualcosa che riguarda ciò che conta nella vita. Don Tarcisio Vicario, di stanza a Cameri, è uno di questi. Addirittura è così preoccupato di spiegare bene come la pensa Dio – così lontano dal modo in cui pensano gli uomini – che lo scrive anche nel bollettino parrocchiale, con una Lettera alle Famiglie. Non inventa nulla, è il catechismo della Chiesa, solo che prova a spiegarlo anche con degli esempi perché si capisca meglio. E invece è qui che scoppia il pandemonio.

Don Tarcisio spiega infatti che il matrimonio è un sacramento e quindi chi convive senza sposarsi in chiesa continua a peccare senza neanche porsi il problema. Si può anche fare un peccato molto più grave, ma se è occasionale, se ci si pente e si cambia vita, si è perdonati. Succede anche di commettere lo stesso peccato tante volte, quasi per abitudine, ma se c’è reale pentimento e desiderio di conversione questo non è un ostacolo. Lo dice anche il Papa: Dio non si stanca di perdonare. Il problema è quando nel peccato ci si sguazza come un pesce nell’acqua, lo si giustifica e si pretende che sia una cosa giusta. Allora questa è corruzione – ci ha spiegato tante volte papa Francesco – e questo non si può accettare. 

Ed ecco le parole usate da don Tarcisio: «Per la Chiesa, che agisce in nome del Figlio di Dio, il matrimonio tra battezzati è solo e sempre un sacramento. Il matrimonio civile e la convivenza non sono un sacramento. Pertanto chi si pone al di fuori del sacramento contraendo il matrimonio civile, vive una infedeltà continuativa. Non si tratta di un peccato occasionale (per esempio un omicidio), di una infedeltà per leggerezza o per abitudine che la coscienza richiama comunque al dovere di emendarsi attraverso un pentimento sincero e il proposito vero e fermo di allontanarsi dal peccato e dalle occasioni che conducono ad esso».

Cosa ha detto di sbagliato don Tarcisio? Nulla. Ma quel riferimento all’omicidio ha subito provocato reazioni scomposte: «Ha detto che convivere è peggio dell’omicidio», è cominciata a girare la voce, e ovviamente le sue parole sono state subito strumentalizzate e sono diventate titoli choc di giornale. 

Il caso diventa subito nazionale. E il vescovo, monsignor Franco Giulio Brambilla, cosa fa? Essendo il pastore della diocesi, il padre dei suoi preti, ci si aspetta che protegga il suo sacerdote, che denunci l’evidente strumentalizzazione e – se proprio non è d’accordo con le modalità con cui don Tarcisio si è espresso – che lo chiami e magari gli dia una lavata di capo a quattr’occhi. Così farebbe un padre.

E invece monsignor Brambilla decide di unirsi al coro della vergogna e consegna un suo prete alla pubblica gogna. «Il clamore suscitato» dalla lettera alle famiglie di don Tarcisio – scrive monsignor Brambilla in una lunga nota – «richiede una netta presa di distanza sia dai toni che dai contenuti del testo per una inaccettabile equiparazione, pur introdotta come esempio, tra convivenze/situazioni irregolari e omicidio. L'esemplificazione, anche se scritta tra parentesi, risulta inopportuna e fuorviante e quindi errata».

«Inaccettabile equiparazione tra convivenze e omicidio», dice il vescovo di Novara, ma don Tarcisio non ha fatto alcuna equiparazione, solo una differenza tra peccato grave ma occasionale (seguito da pentimento) e peccato magari meno grave ma continuato nel tempo e senza pentimento.

E poi prosegue monsignor Brambilla: la lettera di don Tarcisio è «inopportuna e errata nei contenuti, perché dalle parole di quello scritto, non emerge il volto di una Chiesa che è madre, anche quando vuole essere maestra di vita». Ma ci si chiede, visto che si condanna l’eventuale equiparazione: la Chiesa è madre solo per chi vive situazioni familiari irregolari o anche per gli altri peccatori? Forse che l’omicida non ha diritto alla misericordia come il concubino? 

Certo, si può capire che l’improvvisa pressione dei media abbia magari condizionato il vescovo, qualcuno dice che si è messo paura del can can sollevato dalla stampa; possibile, anche se ricordiamo che in passato a monsignor Brambilla non è mancato il coraggio; ad esempio quando nel 1989, giovane teologo ambrosiano in carriera, fu tra i 63 firmatari del documento dei teologi italiani che contestavano il Magistero di Giovanni Paolo II e chiamavano i cattolici italiani alla riscossa. Coraggio che fu ben ripagato, perché non solo la sua carriera di teologo non ne ha risentito, ma è stato addirittura nominato vescovo. In privato, con qualche suo collaboratore pare che abbia espresso il suo rincrescimento per quanto accaduto e per le parole che ha dovuto dire contro un suo prete, ma con tutto quel clamore «ero obbligato a dire qualcosa». D’accordo, però oltre a dire qualcosa sarebbe meglio dirla anche giusta.

Ma aldilà dei contenuti, a lasciare male è proprio questo spettacolo di pastori che non ci pensano un attimo a mollare i propri preti, se questo aiuta nell’immagine pubblica. E purtroppo non è la prima volta che accade.