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CRISI

Se il governo fa crollare il castello di carte delle pensioni

L'Italia è il secondo paese europeo, dopo la Grecia, che spende di più nel sistema pensionistico. I conti dell'Inps sono sempre peggiori. Già il buco che si potrebbe registrare a fine anno potrebbe obbligare il governo ad alzare le tasse. Nonostante tutto, il ministro Poletti vuole aumentare la spesa per permettere ai lavoratori di anticipare la pensione.

Economia 03_09_2015
Contributi

Ieri mattina, in una lunga intervista al Corriere della Sera, il ministro del Welfare Giuliano Poletti ha affermato che una riforma delle pensioni non potrà essere “a costo zero”. “Le penalizzazioni (per chi sceglie di uscire prima dal mercato del lavoro ndr) – ha detto Poletti - non possono essere insostenibili. Bisognerà fare un ragionamento complessivo nel governo, tenendo a mente che quello non è solo un intervento sulle pensioni. E che, come obiettivo laterale ma non meno importante, ha quello di aiutare l’occupazione giovanile”.

Una scelta del genere, se davvero attuata, renderebbe ancora più fragile un sistema già oggi al collasso: non bisogna infatti certo essere degli economisti provetti per capire che l’Inps ha qualche problema. Stando ai dati ufficiali nel 2014 l’istituto nazionale di previdenza ha chiuso il bilancio con ben 12 miliardi di euro di perdite che dovrebbero scendere ad “appena” 5,65 nel 2015. Una previsione probabilmente fin troppo rosea visto che, dopo la sentenza della Corte costituzionale del marzo scorso, Renzi dovrà rimborsare ai pensionati la bellezza di qualche miliardi di euro (1,8 per il 2012 e 3 per il 2013, mentre per il 2014 mancano ancora i calcoli).

Con tutte queste uscite aggiuntive è probabile che il patrimonio netto negativo dell’Inps, a fine anno, superi addirittura la cifra monstre di 48 miliardi già prevista. Un buco difficilmente ripianabile anche nell’ipotesi di aumentare le tasse (che Renzi aveva invece  promesso di ridurre): basti pensare che, stando a uno studio di Ance, il gettito delle imposte sul mattone nel 2014 è stato pari a 42,1 miliardi. Neppure raddoppiandole si riuscirebbe a coprire il buco dell’Inps.

Ma perché l’istituto pensionistico statale è messo tanto male? Fra i principali problemi, oltre al buco della cassa dei dipendenti pubblici (Inpdap) inglobata nel 2012, il suo Consiglio di indirizzo e vigilanza ha individuato l’“effetto congiunto del blocco del turn over e dalle pensioni di anzianità concesse in passato con requisiti molto bassi”. Insomma, fuori dal burocratese, i problemi sono due. Il primo è che una natalità bassissima e una difficoltà di accesso dei giovani al mercato del lavoro senza precedenti riduce drasticamente i contributi versati all’Inps e aumenta invece i soggetti a carico. Il secondo è che in passato si sono “regalati” ai pensionati un sacco di soldi, spesso in cambio di voti (dicono nulla le baby pensioni?). Senza cambiamenti il sistema andrà quindi inesorabilmente verso il fallimento. E la situazione – fa notare la Covip in una nota – è ancor più aggravata dal fatto che “in Italia, da un lato, il progressivo aumento della vita media della popolazione ha fatto sì che si debbano pagare le pensioni per un tempo più lungo, dall’altro, il rallentamento della crescita economica ha frenato le entrate contributive”.

Spendere ancora di più per le pensioni , in una situazione del genere, non è certo la soluzione ideale. Anche perché, per il proprio sistema previdenziale, l’Italia non lesina già oggi risorse. Basti pensare che – secondo i dati ufficiali Eurostat  – l’Italia è il secondo Paese europeo che spende di più per le pensioni, guarda caso dietro alla Grecia: siamo a quasi il 17% del Pil contro il 15% della Francia, il 12% di Germania, Spagna e Regno Unito e una media europea poco sopra il 13%. La cosa migliore sarebbe creare un sistema a capitalizzazione (in cui i contributi vanno su un conto dedicato al singolo lavoratore che li accumula) o estendere il calcolo contributivo alle pensioni già erogate, in modo da far rimanere il sistema in equilibrio.

Peccato che, a quanto pare, non lo si possa fare: i tentativi, anche minimi, di riforma sono stati infatti sempre bocciati, sonoramente, dalla Corte costituzionale. L’unica alternativa plausibile diventa, allora, quella di puntare sul rinnovamento demografico: se non si può, né si deve, obbligare le famiglie a fare figli si può però, anzi si deve, aiutarle a crescerli magari attraverso il quoziente familiare. Inoltre, per incentivare il lavoro dei giovani, si dovrebbe agire sulla fiscalità e la burocrazia: ad oggi un ventenne che crea un’impresa è tassato in modo eccessivo, anche nel caso in cui apra la partita Iva al famoso “regime dei minimi”, in gran parte per colpa dei contributi Inps (che si “pappa” almeno 3.653 euro l’anno); d’altro canto gli imprenditori sono disincentivati ad assumere proprio a causa d'imposte e oneri burocratici sulle assunzioni a dir poco eccessivi.

Solo invertendo la rotta si potranno centrare due obiettivi fondamentali: creare una società più aperta, giovane e dinamica e risolvere, al contempo, l’annoso problema delle pensioni.