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EDITORIALE

Se Facebook rifiuta di oscurare un profilo pro-Jihad

Una pagina su Fb che inneggia al jihad diffama una giornalista. Il giudice ne chiede l'oscuramento, ma il colosso dice no. Eppure per altre opinioni non politically correct è stato messo il bavaglio. Ma la colpa è anche nostra, che abbiamo lasciato ai social il potere decidere per che cosa dobbiamo indignarci.

Editoriali 31_03_2016
Facebook

Libertà, ma a certe condizioni. E’ solo una questione di standard aziendali. Il colosso Facebook è diventato per milioni di utenti nel mondo la prima e unica fonte di informazione. Il suo carattere di collettore universale di notizie dà la sensazione inebriante di bastare a se stesso: perché Facebook è forse più di ogni altro social, quello che risponde di più alle leggi della globalizzazione. Se non hai l’abbonamento a Sky per sapere com’è finito il clasico Real-Barcellona basta un clic sul profilo di una delle due squadre. E se si vogliono aggiornamenti sulla strage di Bruxelles, anche qui, niente paura: basta seguire uno dei profili di un qualche grande network per avere sul palmo della mano tutte le notizie indispensabili. Chiamiamo tutto questo libertà e democrazia in chiave social, ma non ci rendiamo conto che anche dietro questo sistema ci sono uomini, e non macchine programmate asetticamente, che ci chiudono in una trappola.

Lo dimostra il caso della vicenda della pagina Facebook Musulmani d’Italia che nei giorni scorsi ha pesantemente preso di mira una giornalista reggiana del Resto del Carlino. Lei, Benedetta Salsi, aveva scritto del reggiano convertito all’islam Luca Aleotti, indagato dalla Procura di Bologna per terrorismo internazionale. Il giudice aveva disposto alcune misure restrittive a seguito di altre accuse rivolte al giovane, nell’ambito della sfera privata e per aver aggredito un agente. E la giornalista, avuta la notizia, l’ha scritto.

Il 33enne era già noto all’opinione pubblica. Da tempo postava proclami su Facebook che avevano come messaggio citazioni bellicose del Corano contro i kuffar (gli infedeli) oltre alla bandiera di Al Nusra, la costola di Al Qaeda in Siria, e si era persino spinto a postare con orgoglio il decreto di perquisizione fattogli dalla Digos che era andato a visitarlo a casa e dal quale si evinceva che era indagato per terrorismo internazionale.

Così la pagina Musulmani d’Italia ha preso di mira la giornalista colpevole di aver scritto di Aleotti e dopo poche ore dalla pubblicazione dell’articolo, la cronista si è trovata il suo account Twitter pubblicato a mò di gogna con tanto di dati personali e opinioni che la stessa Procura di Reggio Emilia ha ritenuto diffamatorie nei confronti della cronista. «C’è la mia fotografia rubata da Twitter e un testo con il mio nome, cognome, età, luogo in cui lavoro. Sono indicata come “islamofoba”, poi pesanti calunnie e invenzioni riguardanti la mia sfera personale e intima, allusioni sessiste e volgarità», ha spiegato. Sul profilo poi è comparso un giudizio che è sembrato un anatema: «Per lo statuto giuridico islamico questi atti sono punibili severamente».

Follia, provocazione o disegno preordinato? Intanto lei ha presentato un esposto alla Digos. Si è mossa la Procura di Reggio Emilia, che è riuscita a convincere il giudice a emettere un dispositivo per bloccare immediatamente la pagina Facebook.

Che invece però è ancora aperta. Come la giornalista ha spiegato infatti, la richiesta fatta dal giudice al colosso fondato da Mark Zuckerberg è stata rigettata. Il motivo? Non si sa, ma la procura di Reggio è intenzionata ad andare avanti per arrivare alla chiusura di quella pagina. Intanto, mentre anche il Ministro dell’Interno Alfano ha condannato quel diniego, la giornalista ha fatto notare come sia «più tutelata la libertà di espressione di Aleotti della mia dignità personale».

Eppure quando si trattò di oscurare il profilo Fb di Costanza Miriano colpevole di difendere la famiglia naturale, il social non ci pensò due volte. Così come ha fatto in tante occasioni in cui la libertà di espressione tanto osannata è stata fermata: i casi di Matteo Salvini sugli zingari o di Giuseppe Cruciani e della sua crociata a colpi di salame contro i vegani sono solo i più eclatanti.  

C’è un grande fratello che decide chi e che cosa merita di rimanere pubblicato sul social più famoso? E chi è che si trincera dietro la scusa degli standard aziendali? A quali interessi, commerciali, economici, politici rispondono? Sono domande normali da rivolgere però a un mister x nei confronti del quale, evidentemente, neppure le autorità hanno potere. Domande a cui difficilmente riusciremo ad avere risposta dato il potere comunicativo che Fb riveste. E che giocoforza influenza non solo le nostre opinioni, ma anche il nostro lavoro.

Viviamo nella certezza consolante che Facebook altro non sia che una gigantesca e neutrale piazza virtuale dell’informazione, un gran bazar del sapere e anche noi giornalisti abbiamo delle responsabilità essendo molto pigri e di bocca buona: d’altra parte una dichiarazione presa dal social è sicuramente più facile e sicura di una telefonata o di un contatto diretto. E decisamente meno faticosa.

Le 7 italiane morte all’Erasmus in Spagna? Ci sono i profili con le foto, le ultime parole, le amicizie, gli amori. Decisamente più semplice e meno complicato che il triste rito della telefonata o della visita a casa delle vittime. Una volta a noi cronisti in erba i capiredattori spiegavano che davanti alla porta avevamo un essere umano in carne ed ossa a cui era appena morto in un evento traumatico un figlio o un padre. Quindi non potevamo certo aspettarci che ci prendessero il soprabito e ci facessero accomodare sul sofà. «Se ve le danno con un bastone, prendetele e ringraziate. Fa parte del mestiere. Se vi parlano e vi danno una foto del deceduto tanto meglio, ma mettete in conto di essere accolti con un occhio pesto». Era la legge del cronista. E l’abbiamo subìta imparando a relazionarci in modo vero con tutti i drammi e scoprendo elementi della realtà che un social qualunque non potrà mai insegnarci: il rispetto umano, l’umiltà di fronte alle notizie tragiche che la cronaca quotidianamente ci riserva, l'infinita utilità del silenzio perché di fronte a certe tragedie a volte siamo solo degli scribacchini.

Abbandonati in questa pigrizia abbiamo così lasciato a Facebook e agli altri social network il potere di decidere che cosa sia notiziabile, che cosa faccia tendenza, che cosa va e cosa invece non va. Gli abbiamo lasciato la prerogativa di dettare l’agenda della nostra giornata, il gradimento delle nostre opinioni e dei nostri investimenti commerciali, il mi piace sui nostri interessi e spesso anche il timone dei nostri giornali.

Ma che cosa succede se Facebook da neutrale carta assorbente e amplificatore delle vicende umane, si mette in testa di decidere per che cosa dobbiamo indignarci e per che cosa dobbiamo piangere? Se di colpo da strumento diventa coscienza imposta e teleguidata? Succede che ci sentiamo come impotenti di fronte ad un qualche cosa che non conosciamo, ma che sa perfettamente chi siamo. E questo ci apre un abisso di paura e di spaesamento che cerchiamo di lenire o accodandoci al trend del momento o ritrovandoci più soli di quando il profilo non ce l’avevamo e se dovevamo dire “mi piace” a un amico lo facevamo negli occhi guardandolo bene. Perché, almeno, lo conoscevamo.