Sconfitto il fronte anti Renzi. Ma la guerra inizia adesso
Il flop del referendum anti-trivelle ha prodotto una feroce polemica a sinistra. E ha smascherato le mire di Michele Emiliano, governatore pugliese, che punta a contendere a Renzi la guida del Pd e, in prospettiva, forse anche la guida del Paese. Attorno al governatore si sta coagulando un dissenso anti-premier.
Il flop del referendum anti-trivelle, costato 300 milioni di euro, ha prodotto una feroce polemica a sinistra. E ha smascherato le mire di Michele Emiliano, governatore pugliese, che punta a contendere a Renzi la guida del Pd e, in prospettiva, forse anche la guida del Paese. Attorno al Presidente della Regione Puglia si starebbe coagulando un dissenso antirenziano che, partendo da elementi territoriali e socio-economici, punta a mettere in difficoltà il premier.
Non si può dire, quindi, che Renzi non abbia nemici e che, anzi, non perda occasione per farsene degli altri. La consultazione popolare di domenica, andata come lui auspicava, e cioè con un’affluenza alle urne assai bassa, lo ha ringalluzzito, ove ce ne fosse bisogno, e gli ha fatto dire che a perdere sono stati “i demagoghi” e coloro i quali perseguivano, attraverso il referendum, interessi personali. Neppure troppo velato, quindi, il riferimento al suo rivale dem, Emiliano, che gli ha risposto per le rime, invitandolo a rispettare gli elettori che hanno deciso di andare comunque a votare, pur nella quasi certezza dell’inutilità del voto (nessun sondaggio della vigilia, al di là degli obblighi di riservatezza, dava possibile il raggiungimento del quorum), e ricordandogli che lui si trova a Palazzo Chigi senza essere passato attraverso un’investitura popolare.
Ma il tentativo di queste ore delle varie opposizioni anti-Renzi di destra e di sinistra è quello di tracciare un identikit degli elettori che hanno deciso di recarsi alle urne domenica. I circa 15 milioni di votanti che colore politico hanno? Emiliano si è intestato quel 32% di persone che sono andate ai seggi e ha ricordato a Renzi che quei 15 milioni sono molti di più di quelli che hanno votato Pd alle europee del 2014, quelle in cui i dem superarono il 40%. Ma che senso ha fare un paragone del genere? In due anni sono cambiate tante cose e appare quanto meno azzardato tracciare un parallelismo tra un’elezione con un carattere politico ben preciso e un referendum su un tema così specifico come quello delle trivelle.
Tanto più che il leader del Movimento Cinque Stelle, Luigi Di Maio ha, invece, sostenuto che le beghe interne al Pd, in particolare lo scontro fratricida tra Renzi ed Emiliano, hanno disincentivato il ricorso alle urne e dissuaso molti potenziali elettori che, capendo di andare a votare pro o contro una corrente del Pd, avrebbero desistito. E in ogni caso Di Maio ritiene che moltissimi elettori grillini siano andati a votare “si” e dunque che buon parte di quel 32% di votanti sia riconducibile al suo bacino elettorale. E allora dove sta la verità? Nelle parole del deputato pentastellato c’è sicuramente del vero: il referendum di domenica scorsa è stato molto politicizzato ed è diventato un regolamento di conti tra renziani e antirenziani, anche se questi ultimi, presagendo il mancato raggiungimento del quorum, negli ultimi giorni hanno affievolito la loro spinta anti-trivelle, preferendo concentrare le proprie energie sul referendum di ottobre.
Il capogruppo di Forza Italia alla Camera, Renato Brunetta, ha trovato anch’egli il modo di esultare, dicendosi convinto che, se al referendum confermativo della riforma del Senato, fra sei mesi, dovessero andare a votare “no” gli stessi che hanno votato “si” domenica alla consultazione sulle trivelle, il premier perderebbe quella partita e dovrebbe andare a casa. Scenari futuribili ma ancora troppo nebulosi, legati a tutta una serie di variabili di cui Brunetta e altri oppositori anti-renziani non tengono conto. In primo luogo la situazione economica del Paese. É vero che potrebbe esserci bisogno di una manovra aggiuntiva e impopolare, ma non è escluso che da Palazzo Chigi possano arrivare nei prossimi mesi altre mancette come gli 80 euro di due anni fa, in grado di spostare il consenso in favore del governo.
E se Renzi dovesse condurre in porto quella battaglia referendaria, ben difficilmente alle politiche del 2018 correrebbe rischi, perché i comitati per il “si” alla riforma del Senato diventerebbero embrioni del nuovo centrosinistra a trazione renziana, allargato a quella componente moderata che oggi sta formalmente nel centrodestra ma che non vede l’ora di abbandonare Salvini, Meloni e l’ala “lepenista” della coalizione post-berlusconiana.