Scelte morali, decisive per la salvezza
Per i "novatori" di ogni latitudine, la crisi originerebbe dalla rigidità dottrinale, dalla dipendenza dai dogmi, dal mancato aggiornamento. Ma dove questa ricetta viene applicata, i fedeli si perdono, ai sacerdoti viene a mancare la fortezza. E come ricordava il Beato Giovanni Paolo II “Per un Vescovo la mancanza di fortezza è l’inizio della sconfitta. Può continuare a essere apostolo? Per un apostolo, infatti, è essenziale la testimonianza resa alla Verità! E questo esige sempre la fortezza”.
Lo stimolante dibattito che è seguito all’intervento di Mario Palmaro e del direttore Cascioli offre numerosi spunti di riflessione tra cui penso almeno due possano essere più immediatamente riconducibili al campo bioetico dove si concentra in particolare il mio interesse. La prima questione: la morale è mezzo necessario alla salvezza, oppure si può giungere a prescindere da essa? Sappiamo che attraverso il battesimo diventiamo figli di Dio, eredi del Padre. Ma in che cosa consiste questa eredità? La beatitudine è la risposta che ci è fornita dal catechismo, essa è partecipazione della natura divina, vita eterna, godimento della vita trinitaria (CCC 1721). Ma come possiamo raggiungerla? Lasciamo ancora rispondere il catechismo: “La beatitudine promessa ci pone di fronte a scelte morali decisive. Essa ci invita a purificare il nostro cuore dai suoi istinti cattivi e a cercare l'amore di Dio al di sopra di tutto” (CCC 1723). Quaerere Deum coincide quindi con una vita buona attuata attraverso “scelte morali”: fare il bene ed evitare il male è il primo precetto della morale. Come salmoni che risalgono la corrente ci avviciniamo alla origine e fonte di ogni bene seguendo a ritroso il fiume del bene.
Nella vita molte sono le strade, le deviazioni, i vicoli a fondo cieco, rischiamo tante volte di rimanere imbottigliati, impantanati, di smarrire la direzione giusta, ecco che Dio pone cartelli indicatori, “la legge morale è opera della Sapienza divina. La si può definire, in senso biblico, come un insegnamento paterno, una pedagogia di Dio. Prescrive all'uomo le vie, le norme di condotta che conducono alla beatitudine promessa; vieta le strade del male, che allontanano da Dio e dal suo amore” (CCC 1950). Possiamo dire, mentre scriviamo su La Nuova Bussola Quotidiana, che la legge morale articolata in espressioni diverse tra loro coordinate (CCC 1952) è la bussola che Dio ci ha dato per avvicinarci sempre più a Lui. Se è vero che dalla fede derivano le opere, non è meno vero che il solo credere non salva, anche i demoni gadareni dichiaravano infatti Gesù figlio di Dio. “Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli” (Mt 7,21) è l'ammonimento rivolto agli uomini per esortarli ad una fede operosa in carità che non è solo materiale, ma primariamente spirituale e poi anche intellettuale. “La fede: se non ha le opere, è morta in se stessa” (Gc 2,17), ripete San Giacomo.
Per fare la volontà di Dio vi è prima la necessità di comprendere la Sua volontà, l'intuizione non è sufficiente, la natura è ferita dal peccato e non dà garanzie assolute, abbiamo necessità della parola di Dio interpretata e spiegata dalla Chiesa, abbiamo bisogno di aprire il cuore attingendo alla Grazia dei Sacramenti che solo dalla Chiesa ci possono giungere. Fare la volontà non corrisponde ad un mero atto dell'intelletto, ma è un movimento di adesione integrale della persona ad annichilire se stessi per Dio “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente” (Mc 12,30). S. Ignazio giunge a prescrivere ai membri della Compagnia tale docilità nella variante della passiva ubbidienza del morto (perinde ac cadaver) e nella attiva adesione agli ordini della Chiesa (XIII regola: “quello che io vedo bianco lo credo nero, se lo stabilisce la Chiesa gerarchica”). Nella Didaché e nello Pseudo-Barnaba la Chiesa ha insegnato la decisività per la salvezza delle scelte morali impiegando la metafora delle due vie, quella del male e della morte da una parte, quella del bene e della vita, cioè la salvezza dell’anima, dall'altra. “Io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male” (Dt 30.15).
La riflessione casuistica non è affatto in opposizione alla norma morale, anzi essa è strumento perché la norma conservi il suo legame con la giustizia e continui ad indicare il bene nella circostanza specifica, ma bisogna sforzarsi di sapere distinguere la buona dalla cattiva casuistica. Quando il cardinale Ratzinger nel 1990 citò al meeting di Rimini la mordace frase di Pascal “ecce patres qui tollunt peccata mundi” volle stigmatizzare una degenerazione casuistica di certi “moralisti” volta a cavillare per liberare il mondo dalla colpa “a buon mercato”. È semmai l’epicheia a garantire che la legge non si trasformi talora in uno strumento d’ingiustizia. San Gregorio di Nissa afferma che “le nostre azioni sono i nostri genitori” per evidenziare che il nostro agire ha profonde conseguenze non solo sugli altri, ma anzitutto su noi stessi; collaborando all'ispirazione della grazia nel fare il bene ed evitare il male progrediamo in santità unendoci in modo sempre più intimo a Cristo (CCC 2014). Nella quaestio 92 S. Tommaso insegna che la legge ha l'effetto di rendere buoni coloro a cui è data. (proprius effectus legis sit bonos facere eos quibus datur). Seguire i precetti al bene non può mai essere di ostacolo alla nostra salvezza, sia per il non credente che, conservando la legge morale naturale, può seguire una legge che è “partecipazione alla sapienza e bontà di Dio da parte dell'uomo, plasmato ad immagine del suo Creatore” (CCC 1798), che per il credente che possiede anche la legge rivelata antica e nuova. Così è vero il contrario che la violazione delle norme, come insegna San Paolo agli abitanti di Corinto, ci priva dell’eredità celeste, a prescindere da quelle che siano le nostre illusioni. Quanto ho cercato di dire in modo del tutto insufficiente e inadeguato lo si può assai meglio comprendere dalla lettura integrale del messaggio di Benedetto XVI per la Quaresima 2013 dove il Papa parlava di “indissolubile intreccio tra fede e carità”.
Giungiamo così al secondo punto: se la via del bene porta a Dio, se giustamente il beato Giovanni Paolo II diceva ai membri del Pontificio Ateneo per Matrimonio e Famiglia da lui stesso voluto che “rinnegare la verità morale significa rendere vana la croce di Cristo”, allora diventa imperativo interrogarci sullo stato attuale della fede nella verità morale. Le diagnosi di Papa Paolo VI, del cardinale Ratzinger, del breve, ma intenso saggio di Ralph McInerny, convergono nell’attestare la crisi post-conciliare. Se la diagnosi dello stato di malattia vede un largo consenso, si assiste ad una divaricazione totale quando si passa all’individuazione dell’eziologia e del piano terapeutico. Per i “novatori” di ogni latitudine la crisi originerebbe dalla rigidità dottrinale, dalla dipendenza dai dogmi, dal mancato aggiornamento, dalla struttura autoritaria della Chiesa. Al contrario c’è chi pensa che la crisi venga dal lassismo morale, dal cedimento dottrinale, dall’accomodamento, dal relativismo. Chi ha ragione?
Se andiamo a vedere le realtà dove la prima ricetta è stata applicata, mi riferisco a Olanda, Belgio, Austria, Germania, Francia, vediamo in quale stato agonico versi la fede, la morale privata e pubblica, la vita religiosa e la pratica dei sacramenti. E come sta la fede dalle parti degli anglicani, maestri indiscussi di mondanizzazione? Come tra i luterani? Rimanendo nel contesto italico, pur senza referti sociologici diretti, possiamo interrogarci sugli insegnamenti impartiti negli ultimi cinquant’anni negli oratori, nelle aule catechistiche, ai fedeli sulle panche, ai laici impegnati, ai residuali penitenti. Con la crisi della verità morale, con l'incoronazione dell'autonomia assoluta della coscienza, somministrando i veleni dell'etica della situazione e della buona intenzione, si pongono i presupposti generali per un cumulo di disastri specifici: catechisti per cui “anche l’eutanasia è un atto d’amore”, sacerdoti che accompagnano le donne ad abortire, parroci che giustificano la fecondazione artificiale, vescovi che auspicano il varo delle leggi sulle unioni civili, conferenze episcopali che sdoganano le pillole dei giorni dopo, cardinali che invocano il perdono per l’eccessivo spavento arrecato dalla descrizione dell’inferno, che si muovono per la Comunione ai divorziati, che omettono di proteggere il Sacramento Eucaristico dalla profanazione.
Ed in questo panorama indovinate chi viene sospettato di non sentire cum Ecclesia? È possibile che, attaccati dalla militanza laicista, i lapsi abbiano cominciato a fraternizzare con gli aguzzini perché colti dalla sindrome di Stoccolma, ma è solo un'ipotesi. Un carissimo amico, da sempre militante nella buona battaglia, mi ha inviato un passaggio dell'ultimo libro di Giovanni Paolo II, Alzatevi, andiamo! in cui il grande Papa ha scritto: “Per un Vescovo la mancanza di fortezza è l’inizio della sconfitta. Può continuare a essere apostolo? Per un apostolo, infatti, è essenziale la testimonianza resa alla Verità! E questo esige sempre la fortezza” [...] “La più grande mancanza dell’apostolo è la paura. A destare la paura è la mancanza di fiducia nella potenza del Maestro; è questa che opprime il cuore e stringe la gola”. Alla fine, elidendo i termini, si giunge alla croce del problema: la perdita della fede. Ho l’impressione che nel grande ospedale da campo molti dei dipendenti siano portatori non sani di varie malattie infettive, mentre un numero non trascurabile faccia il doppio lavoro per l’azienda concorrente. Da semplice medico di famiglia mi pare che sia stata dimenticata l’igiene, che la conversione delle sale chirurgiche in dispensari di fiori di Bach, goccine omeopatiche, tisane fitoterapiche e tante pacche sulle spalle abbia favorito la creazione di schiere di uomini e donne spiritualmente malati fradici, ma convinti di stare più in salute dei supereroi della Marvel. Ai cancelli della clinica ci sarà anche qualche mastino a spaventare i pazienti bisognevoli di cure, è giusto redarguirli. Ma quali sanzioni hanno ricevuto quei narcotizzati che non si sono accorti dell'entrata dei predatori? Non ha forse continuato a godere di tutti gli onori chi scientemente apriva le porte ai lupi facendoli sedere sulle cattedre dei non credenti?
Non sono cose del passato, non è trascorso neppure un anno da quando al "festival biblico" vicentino è stata data tribuna senza contraddittorio ad una nota maître a penser del laicismo abortista. La psicologia insegna l’importanza della conferma, del rinforzo positivo. Noi laici abbiamo bisogno dell'aiuto spirituale, intellettuale e materiale dei consacrati. Nel deserto i pronunciamenti dei Papi sono stati un faro e un balsamo. In un recente intervento Ettore Gotti Tedeschi ha ricordato come la Chiesa sia sempre stata oggetto di attacchi proprio in quanto autorità morale organizzata che indica certe azioni come bene ed altre come male, a fronte di un mondo che non tollera che qualcuno gli indichi che quello che sta compiendo è male. Quanti si sono battuti per la difesa dei principi non negoziabili dopo i pronunciamenti di Benedetto XVI sanno bene quanto sia diffusa la “visibilità dell'assenza” e la “presenza mimetica” che il sociologo della religione Pietro De Marco attribuì alla Chiesa toscana. Si dice che siano proprio le attuali condizioni ad imporre un cambio di strategia nei cui confronti è ancora presto per esprimersi. Tutto è possibile, sappiamo che la Provvidenza opera, dobbiamo mantenere la speranza, ma a viste umane grande sarebbe il mio stupore se certi ordinari afasici e tetraplegici sapessero trasformarsi in intrepidi capitani. L’analisi di Stefano Fontana mi pare oggettiva. Nel 2005 ci fu il Family Day, niente più che un sussulto lasciato incolto, ma almeno un segno vitale; adesso, ad un passo dalla mazzata finale alla famiglia, di generali nemmeno l’ombra, due o tre capitani coraggiosi lasciati senza ordini e senza munizioni, oltre a questi un po' di sottufficiali ed eroiche sentinelle in piedi.
Ma non è giusto, non è cristiano lasciare che il dolore soffochi la speranza. Non tutto è accidia, avidità, ignoranza. Me lo dice l’esperienza che nella difesa della vita mi ha fatto incontrare tanti magnifici sacerdoti, religiosi, religiose, laici la cui conoscenza già basta a ricompensare cento volte il mio impegno. Lo conferma Cascioli che ci ha ricordato la prospettiva soprannaturale senza la quale sarebbe giustificato occuparsi d’altro. La prospettiva storica di Agnoli aiuta a comprendere che la Chiesa, il corpo mistico di Cristo, non dal post-Concilio, non dall’attuale pontificato, ma dal principio ha cominciato a gemere crocifissa continuando lungo tutti i secoli. Lo sguardo escatologico obbliga a rammentare con S. Teresa “Nulla ti turbi, niente ti spaventi, tutto passa, Dio non cambia, la pazienza ottiene tutto; chi possiede Dio non manca di nulla. Solo Dio basta”. A noi, ciascuno nel suo stato, è affidato il compito di conservare il seme, di presidiare il nostro metro di trincea come se tutto dipendesse da noi, sapendo che tutto dipende da Dio, lieti di completare nella carne, nella mente e nel cuore quello che manca ai patimenti di Cristo rimanendo con lui ai piedi della Croce, accanto a Maria.