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ALLARME PER L'ITALIA

Scafisti e mujahidin: sta esplodendo la bomba tunisina

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L’unico paese che non ha tempo da perdere di fronte all'esplosiva crisi tunisina è l’Italia, che guarda con timore all’ulteriore ingigantirsi del flusso di migranti. Un problema serio che chiama in causa anche il terrorismo jhadista, sempre pronto, come già è accaduto, a cogliere l’opportunità d’infiltrare i suoi mujahidin tra i migranti. Se abbandonata a se stessa, nel destino della Tunisia c’è la conflagrazione dietro l’angolo, con l’Italia prima vittima collaterale. 

Esteri 05_04_2023

La Tunisia è sul punto di scoppiare? Gli ingredienti per una miscela esplosiva ci sono tutti, a cominciare dalla crisi economica che si aggrava sempre di più. L’inflazione è oltre il 10 per cento e il debito pubblico ha superato il 90% del PIL. Mentre la disoccupazione si attesta attorno al 15, con quella giovanile salita al 37. Si tratta di dati insostenibili per un paese in stagnazione da oltre un decennio, con scarsi investimenti privati sia interni che dall’estero e un settore pubblico sovradimensionato che mangia gran parte delle poche risorse a disposizione. 

L’instabilità politica, il terrorismo e poi il Covid hanno inferto al turismo un durissimo colpo, a cui si è aggiunto il rincaro dei prezzi a seguito della guerra scoppiata in Ucraina, da dove i carichi di grano importati in Tunisia sono stati rimandati indietro per il costo troppo alto del prodotto. La penuria di beni alimentari già sperimentata è destinata a crescere, insieme all’inflazione, anche per il tracollo del settore agricolo locale, dove la produzione nel biennio 2022/2023, stimata a circa 2,5 milioni di quintali, è crollata rispetto ai 7,4 milioni del 2021.

Come se non bastasse, a causa della siccità dovuta alle mancate piogge, è arrivato anche il razionamento dell’acqua potabile destinata all'irrigazione di campi agricoli e agli spazi verdi, alla pulizia di strade e luoghi pubblici. 

Le calamità per la Tunisia sembrano non finire mai. Tutta colpa del “faraone” Kais Saied? Non si può negare che, dal punto di vista politico, il presidente ci abbia messo davvero del suo per meritare le feroci critiche che gli vengono mosse per i metodi “anti-democratici” adottati. La nuova costituzione è stata elaborata da giuristi nominati dallo stesso Saied senza consultare le forze politiche, che hanno poi boicottato il referendum, con una bassissima affluenza alle urne garantita in sostanza solo dai fedelissimi del presidente che hanno approvato il documento con una maggioranza del 94,6%.

Su questa scia, anche il nuovo parlamento è finito per essere costituito da rappresentanti fatti a immagine e somiglianza di Saied. Le elezioni hanno fatto registrare appena l’11% dei votanti, i quali hanno scelto quei candidati che sono riusciti a passare il filtro della nuova legge elettorale voluta dal presidente. La legge ha limitato drasticamente il numero delle liste a cui è stato consentito di partecipare alla competizione ed è stata quindi aspramente contestata dai partiti, non meno di quanto abbiano osteggiato la costituzione. Tra questi, c’è Ennhada, il partito dei Fratelli Musulmani sostenuto da Qatar e Turchia, nei cui confronti Saied si è fortemente contrapposto.

Tuttavia, il presidente tunisino non è sembrato preoccuparsi troppo delle proteste e ha tirato dritto per la propria strada, contento di regnare su un parlamento considerato di facciata, che la riforma costituzionale aveva già svuotato delle proprie prerogative “democratiche”.

Oltre alla centralizzazione dei poteri sulla figura del presidente, la sensazione che la Tunisia stia effettivamente scivolando verso una “restaurazione” post-rivoluzionaria è anche data dalla sequenza di arresti di esponenti dei sindacati e, più recentemente, di giornalisti, messi in stato di arresto in blitz anti-terrorismo che ricordano il trattamento riservato tuttora agli oppositori politici dall’“ancien regime” algerino, rimasto di fatto al potere anche dopo l’uscita di scena del vecchio Bouteflika.

Le dichiarazioni ostili verso i numerosi immigrati “africani” che lavorano in Tunisia, Saied sperava forse di far leva su un tema trasversale in grado di risollevare le sorti del consenso popolare, ma la mossa gli è costata la condanna europea ed internazionale. L’auspicio è che l’arresto cardiaco che lo ha colpito nei giorni scorsi, lo porti a più miti consigli, spingendolo a rilanciare il dialogo nazionale per ricucire il rapporto con i partiti e rimettere in moto il processo politico.

D’altro canto, per essere onesti nelle valutazioni, non si può non riconoscere che Saied non ha alcuna responsabilità nella crisi economica in corso, che è vecchia di oltre dieci anni ed è un’eredità ricevuta proprio dalle forze politiche post-rivoluzionarie che oggi protestano per essere state esautorate dal presidente tunisino. L’esautorazione non è giunta all’improvviso o per caso, ma è il frutto del rifiuto della vasta maggioranza della popolazione nei confronti degli stessi partiti, considerati corrotti, clientelari e nepotisti, buoni soli a litigare e poi del tutto incapaci di svolgere il proprio ruolo di rappresentanza parlamentare in maniera minimamente responsabile ed efficace.

Rifiuto che è valso a Saied l’elezione alla più alta carica dello stato in una vittoria pienamente “democratica”, con la promessa (sincera) di dare al paese stabilità e buon governo, combattendo la corruzione e le cattive pratiche dilaganti.

Dalla sua presidenza, ci si attendeva un contributo significativo alla normalizzazione del processo politico e del gioco democratico, che sarebbe dovuto rimanere di competenza dei partiti. Così non è stato, perché i partiti non hanno colto l’opportunità di maturazione offertagli dal nuovo scenario, da un lato, e perché lo stesso Saied non ha evidentemente resistito alle tentazioni che il potere porta con sé, dall’altro.

Su questo sfondo, va osservato che il Fondo Monetario Internazionale non ha ancora erogato la prima rata dei 2 miliardi di dollari promessi allo stato tunisino non per la deriva “autoritaria” di Saied, bensì per il suo rifiuto d’introdurre le riforme richieste dal Fondo − come lo stop ai sussidi per benzina e cibo, la riduzione dei salari, le privatizzazioni di imprese pubbliche, i tagli alla sanità −, che nel breve-medio periodo atterrerebbero definitivamente una larga fetta della popolazione, di fatto già in ginocchio. 

Al posto di Saied, cosa farebbe oggi un governo espressione dei partiti che sono i veri responsabili della crisi economica? Forse la stessa cosa dell’attuale presidente, che tirando la corda cerca probabilmente di ottenere un accordo con il Fondo a condizioni migliori (più clementi).

La via da seguire al momento è quella indicata dal governo italiano, che ha deciso di fornire supporto economico senza precondizioni. Attraverso l’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo, sono stati infatti stanziati 110 milioni di euro per le piccole e medie imprese, come ha annunciato il ministro degli affari esteri, Antonio Tajani, augurandosi che “il Fondo Monetario Internazionale raggiunga un accordo indispensabile per dare stabilità alla Tunisia”: un modo per chiedere all’organismo una maggiore flessibilità.

Flessibilità non mostrata invece dalla Francia, che ha pronto un pacchetto di aiuti di oltre 200 milioni di euro, la cui erogazione è però sottoposta tassativamente all’introduzione di riforme strutturali legate all’accordo con il Fondo: un modo per mettere Saied alle corde? Sembra essere questo l’orientamento dell’Unione Europea, che ha condizionato gli aiuti non solo alle riforme strutturali, ma anche all’assunzione di provvedimenti che ripristino il rispetto dei principi democratici, come comunicato dal commissario UE per l’economia, Paolo Gentiloni, in visita a Tunisi.

Nessuna urgenza, dunque. Possono tutti aspettare: la Francia, l’Unione Europea, il Fondo Monetario Internazionale. Che importa se la Tunisia crolla? L’unico paese che non ha tempo da perdere è l’Italia, che guarda con timore all’ulteriore ingigantirsi del flusso di migranti che dalle coste tunisine partono sulle barche dei trafficanti dirette in Sicilia. La grande maggioranza è composta da africani sub-sahariani, ma la componente locale oggi minoritaria potrebbe crescere esponenzialmente se la Tunisia dovesse varcare il punto di non ritorno.

Un problema serio che chiama in causa anche il terrorismo jhadista, sempre pronto, come già è accaduto, a cogliere l’opportunità d’infiltrare i suoi mujahidin tra i migranti, come opportunamente ricordato in un’intervista dal presidente dell’ISPI, Giampiero Massolo, che ha evidenziato la forte presenza in Tunisia dei Fratelli Musulmani, nei cui confronti Saied si è fortemente contrapposto: un collegamento casuale?

L’Italia ha chiesto all’Unione Europea di provvedere a uno stanziamento economico speciale, volto a supportare la Tunisia nella gestione dei migranti in arrivo e nel contrasto agli scafisti, come già viene fatto con la Turchia, senza però incontrare finora alcuna apertura in tal senso. Erdogan è forse meno dittatore e più democratico di Saied? 

Se abbandonata a se stessa, nel destino della Tunisia c’è la conflagrazione dietro l’angolo, con l’Italia prima vittima collaterale, data la prossimità geografica. Un finale già scritto?