Satnam, le cause del caporalato e le soluzioni (non semplici)
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La morte di Satnam Singh fa riemergere il problema dello sfruttamento del lavoro nei campi. La ricerca può aiutare a comprendere alcune precondizioni, su cui basare politiche migliorative. Ma né le une bastano a spiegare una tragedia simile né le altre a risolvere tutto.
La terribile vicenda di Satnam Singh, operaio agricolo morto la scorsa settimana per un gravissimo incidente sul lavoro, dopo il quale è stato lasciato per troppo tempo senza assistenza, ha riportato in primo piano, come purtroppo succede ogni estate, il problema dello sfruttamento del lavoro nei nostri campi, e in particolare del lavoro di immigrati. Di fronte a episodi così dolorosi una domanda sorge spontanea: come si può arrivare a tanto?
Della sostenibilità sociale della filiera agroalimentare si è parlato in questi giorni nel convegno annuale dell’Associazione Italiana di Economia Agraria e Applicata. La ricerca può aiutare a comprendere alcune cause strutturali che creano le condizioni per lo sfruttamento del lavoro in agricoltura. Un primo aspetto che è necessario mettere in luce è il calo tendenziale dell’offerta di lavoro agricolo, che accomuna tutte le economie sviluppate, ma anche quelle di Paesi in fasi meno avanzate dello sviluppo (vedi qui). In Italia come nel resto d’Europa o negli USA, sempre meno persone in cerca di lavoro accettano di impiegarsi in agricoltura (vedi qui). Nel nostro Paese esiste ormai un deficit strutturale rispetto alla domanda che ha portato i lavoratori immigrati a coprire oltre il 18% del fabbisogno di lavoro. I lavoratori immigrati svolgono soprattutto mansioni poco qualificate (molto spesso nelle fasi di raccolta del settore ortofrutticolo) con impieghi per la gran parte saltuari e stagionali.
Secondo l’ultimo censimento dell’agricoltura una persona impiegata in agricoltura lavora mediamente 78 giornate all’anno. Come qualsiasi dato medio questo numero nasconde una varietà di situazioni, ma è un buon indicatore di una caratteristica tipica dell’agricoltura e cioè la discontinuità del fabbisogno di lavoro, generata dalla natura biologica del processo produttivo: le operazioni colturali seguono tipicamente le stagioni. È il principale problema organizzativo che devono risolvere le aziende agrarie e l’impiego di dipendenti a tempo determinato è una componente fondamentale della sua soluzione.
È importante considerare un altro aspetto per comprendere perché le aziende agrarie, soprattutto quelle di dimensione più piccola (anche se non necessariamente piccolissima), sono tentate di ridurre il costo del lavoro impiegato oltrepassando la linea che trasforma l’impiego in sfruttamento. Molte imprese hanno una dimensione economica che le espone a forti pressioni competitive lungo la filiera agroalimentare, soprattutto nei mercati a valle. È stato calcolato che di 100€ di consumo finale di prodotti agricoli non trasformati solo 22 restano a remunerare i fattori della produzione agricola: terra, capitali impiegati e lavoro. Una quota che scende a 6,2€ quando i prodotti arrivano al consumatore dopo essere stati trasformati (vedi qui). Nel caso di colture con un alto impiego di lavoro per unità di prodotto, come i prodotti ortofrutticoli freschi, è facile comprendere perché molti imprenditori, soprattutto quelli più piccoli, possano trovare sempre più proibitivo far quadrare i loro conti.
Nel lungo periodo l’innovazione tecnologica probabilmente consentirà di ridurre ulteriormente l’impiego di lavoro agricolo, anche in comparti nei quali oggi la meccanizzazione è ancora difficile: già si sperimenta la robotizzazione della raccolta di prodotti delicati come i pomodori o altri ortaggi. Tuttavia, come in tutte le transizioni, la progressiva diffusione di nuove tecnologie avrà dei costi sociali. Si approfondirà il divario tra le aziende più grandi, ad alta intensità di capitale, che avranno la forza di affrontare gli investimenti necessari, e le aziende più piccole che invece non ce la faranno. Si approfondirà anche il divario tra i lavoratori più qualificati, che potranno partecipare attivamente a questo processo di innovazione, e i lavoratori che, viceversa, non avranno le competenze necessarie. I tempi di queste trasformazioni sono lunghi e non è azzardato prevedere che i segmenti più deboli del mercato del lavoro agricolo, sia sul lato della domanda che su quello dell’offerta, manterranno in vita pratiche di utilizzazione del lavoro meno qualificato che sconfinano nello sfruttamento. Quelli che osserviamo nelle nostre campagne sono tristi episodi di questa trasformazione.
Se dunque questo è, in estrema sintesi, il quadro generale, quali potrebbero essere le politiche più appropriate per ridurre il rischio che tragedie come la morte di Satnam Singh si ripetano? Si possono dare alcune indicazioni a patto che si affronti il problema in tutta la sua complessità. Sarebbe semplicistico affermare che dobbiamo limitare l’immigrazione di lavoratori stranieri: ne abbiamo bisogno per il nostro settore agricolo e ne avremo bisogno anche negli anni a venire. Altrettanto semplicistico sarebbe immaginare di risolvere il problema del lavoro irregolare e migliorare le condizioni dei lavoratori immigrati con sanatorie, come quella sostanzialmente fallita del cosiddetto “decreto rilancio” dell’estate 2020, che registrò solo una modesta adesione nel caso dell’agricoltura (vedi qui). Anche un ulteriore inasprimento delle norme di contrasto ai fenomeni di sfruttamento come il caporalato, peraltro già piuttosto avanzate in Italia, dove la legge 199/2016 ha esteso la responsabilità penale agli stessi datori di lavoro, da solo non basterebbe.
Non esistono soluzioni semplici. L’attuale sistema del decreto flussi sembra palesemente inadeguato, almeno per quanto riguarda il lavoro stagionale agricolo. Non solo consente, verosimilmente, di utilizzare la procedura per nascondere forme di immigrazione illegale, come è stato messo in evidenza dall’esposto presentato dal Governo presso la Procura Nazionale Antimafia; finisce anche per mettere in difficoltà aziende e immigrati che vorrebbero operare secondo le regole (vedi qui). Un’eventuale revisione è urgente ma richiede una volontà trasversale, al di là delle strumentalizzazioni politiche, per essere veramente efficace. Oltre a risolvere le evidenti inefficienze burocratiche, potrebbe cercare di collegare, almeno nei comparti più esposti a rischio di sfruttamento, il coordinamento dell’offerta da parte dei produttori con la programmazione degli ingressi di lavoratori immigrati. Il coordinamento dei produttori, com’è noto, permette di allentare le pressioni competitive sui mercati, ottenendo prezzi più remunerativi per le produzioni agricole. Ma può anche rendere più facile la programmazione dei fabbisogni di lavoro, soprattutto stagionale, e meno onerosa per la singola azienda agricola la gestione della procedura e i costi connessi all’impiego di manodopera stagionale (trasporti, alloggio).
Quanto detto fin qui può spiegare le condizioni per cui i produttori si trovano di fronte alla decisione di scegliere la strada dello sfruttamento, più o meno grave, più o meno nascosto, magari sotto una formale adesione alle regole, come nel caso del cosiddetto “caporalato 2.0” (vedi qui). Ma ovviamente tutto questo, di fronte alla morte di una persona, non basta. Non basta a spiegare quello che si nasconde nel cuore dell’uomo e che può portarlo a rendere il rapporto di lavoro una condizione di sfruttamento disumanizzante.
Le migliori politiche non potranno mai eliminare la scelta tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. È un’illusione pensare di ridurre tutto a una questione di “giusti incentivi”. È anche necessario che cambi lo sguardo che abbiamo gli uni sugli altri. Una cultura come quella che oggi prevale nella nostra società, una cultura che, con sempre maggiore facilità, assoggetta la vita dei più fragili e indifesi ai desideri di coloro che sono più forti, non aiuta a vedere nelle persone che lavorano nei nostri campi dei lavoratori e non semplicemente “forza lavoro”.
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