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IL DECRETO

Sarà beato il giudice Livatino, martire in odium fidei

La Chiesa riconosce il martirio «in odio alla fede» di Rosario Livatino, ucciso dalla Stidda il 21 settembre di 30 anni fa. Visse la professione di giudice come una vocazione, strettamente legata alla carità cristiana. Andò controcorrente, come su difesa della vita e obiezione di coscienza. Parlano alla Nuova Bussola il postulatore diocesano e il magistrato Domenico Airoma.

Ecclesia 23_12_2020

S.T.D., cioè sub tutela Dei (sotto la tutela di Dio), è la sigla che il giudice Rosario Livatino annotava a margine di diversi suoi appunti. Ora, a 30 anni di distanza dalla sua uccisione, sappiamo che il Servo di Dio nativo di Canicattì potrà presto, forse già nel 2021, essere proclamato beato. Lunedì 21 dicembre, infatti, papa Francesco ha autorizzato la Congregazione delle Cause dei Santi a promulgare il decreto che riconosce il martirio «in odio alla Fede» di Livatino, ucciso la mattina del 21 settembre 1990 in un agguato tesogli da quattro sicari della Stidda sulla strada statale da Canicattì ad Agrigento, sede del tribunale in cui lavorava.

Partiamo proprio da qui, dal riconoscimento del martirio per mano di un’organizzazione a stampo mafioso, che si aggiunge all’odium fidei già riconosciuto dalla Chiesa nel 2012 nel caso di padre Pino Puglisi (1937-1993). Molti conoscono il fermo ammonimento che san Giovanni Paolo II pronunciò nella Valle dei Templi il 9 maggio 1993 - al termine della Santa Messa, dopo la Benedizione finale -, ammonimento che culminò nelle parole: «Convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio!». Ma pochi sanno che il grande papa polacco, parlando a braccio, pronunciò quel discorso dopo che la mattina di quello stesso giorno aveva incontrato i genitori del giudice assassinato tre anni prima (nonché i familiari del giudice Antonino Saetta, ucciso con il figlio Stefano nel 1988). Quell’incontro commosse profondamente Wojtyla, che nella circostanza definì Livatino «un martire della giustizia e indirettamente della fede».

Ebbene, la successiva causa di beatificazione, aperta ufficialmente dalla Diocesi di Agrigento il 21 settembre 2011, ha consentito di approfondire i fatti della vita e morte di Livatino, arrivando appunto al riconoscimento formale del martirio. Questo è stato possibile «dopo l’ascolto di numerosi testimoni e aver ripercorso tutta l’esistenza terrena e gli scritti di Livatino, come gli appunti che tracciava a matita giornalmente nelle sue agende e la trascrizione delle conferenze su Fede e diritto e Il ruolo del giudice nella società che cambia. Non è solo il fatto di essere stato ucciso, ma i 38 anni di vita condotti sotto lo sguardo di Dio da un uomo che diceva che rendere giustizia è preghiera», spiega alla Nuova Bussola don Giuseppe Livatino, postulatore della causa a livello diocesano. Riguardo ai suoi assassini, «da qualche intercettazione ambientale è venuto fuori che i mandanti dell’omicidio, appartenenti alle cosche locali, si riferivano a Livatino chiamandolo in maniera dispregiativa ‘u parrineddu [“piccolo prete”, dal dialettale parrinu], per dire che andava sempre in chiesa e non faceva mistero della sua fede», aggiunge don Giuseppe, parente «molto alla lontana» dello stesso giudice e che prima di essere ordinato sacerdote aveva mostrato il suo interesse per l’opera dei magistrati vittime della mafia, fondando con alcuni amici nel 1990 (giusto pochi mesi prima dell’omicidio di Livatino) un’associazione per ricordare il giudice Saetta.

Le parole di don Giuseppe sono sulla stessa lunghezza d’onda di quelle del postulatore generale, monsignor Vincenzo Bertolone, vescovo di Catanzaro, nonché del decreto promulgato dalla competente Congregazione. «La motivazione che spinse i gruppi mafiosi di Palma di Montechiaro e Canicattì a colpire il Servo di Dio fu la sua nota dirittura morale per quanto riguarda l’esercizio della giustizia, radicata nella fede. Durante il processo penale emerse che il capo provinciale di Cosa Nostra Giuseppe Di Caro, che abitava nello stesso stabile del Servo di Dio, lo definiva con spregio santocchio per la sua frequentazione della Chiesa», si legge nel decreto, che prosegue così: «Dai persecutori, il Servo di Dio era ritenuto inavvicinabile, irriducibile a tentativi di corruzione proprio a motivo del suo essere cattolico praticante. Dalle testimonianze, anche del mandante dell’omicidio, e dai documenti processuali, emerge che l’avversione nei suoi confronti era inequivocabilmente riconducibile all’odium fidei. Inizialmente, i mandanti avevano pianificato l’agguato dinanzi alla chiesa in cui quotidianamente il Magistrato faceva la visita al Santissimo Sacramento».

Rosario Livatino era nato il 3 ottobre 1952. Fin dalla prima giovinezza si era impegnato nell’Azione Cattolica. Il 9 luglio 1975 si laureò in Giurisprudenza a Palermo con il massimo dei voti e quattro anni più tardi, dopo le prime esperienze lavorative, iniziò a svolgere le funzioni di sostituto procuratore presso il Tribunale di Agrigento (1979-1988). Dal 1984 al 1988, Livatino, che non si associò mai a nessuna corrente, risultò essere, per riconoscimento del Consiglio Superiore della Magistratura, il magistrato più produttivo della Procura di Agrigento. Sempre nel 1988 ricevette la Cresima. Nell’agosto dell’anno seguente divenne giudice della sezione penale. Si preoccupò di praticare la giustizia con carità cristiana, condannando gli autori di reati ma avendo bene a mente che anche dietro il più grande criminale c’è una persona, bisognosa di compassione e, certamente, conversione. Spiegava: «Decidere è scegliere […]; e scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare. […] Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio. Un rapporto indiretto, per il tramite dell’amore verso la persona giudicata».

Questa sua missione terrena finì appunto il 21 settembre 1990. La fase storica era di quelle caldissime per il territorio agrigentino, segnato dalla contrapposizione tra alcuni clan emergenti della Stidda e Cosa Nostra. Livatino, a bordo della sua Ford Fiesta, fu prima speronato, ferito alla spalla e infine, mentre tentava di fuggire a piedi in una scarpata, raggiunto da diversi colpi di arma da fuoco, compreso uno in pieno volto.

Umile e riservato, sapendo i rischi che correva, non aveva voluto creare troppi legami: «La sua principale preoccupazione era quella di dare un dispiacere ai suoi genitori, perché lui presagiva in qualche modo la fine cruenta a cui andava incontro», dice alla Bussola il magistrato Domenico Airoma, autore di un libro sul "giudice santo" e vicepresidente del Centro Studi Livatino, gruppo di giuristi che ha espresso la propria gratitudine a papa Francesco per il decreto sul martirio. Quel che colpisce nel futuro beato «è la sua costante ricerca della giustizia al di là della legalità, cioè del fondamento del diritto naturale che preesiste al diritto positivo. Fu controcorrente, penso a quello che ha scritto contro l’eutanasia e per il diritto alla vita, l’obiezione di coscienza. Se si censura il suo modo di intendere la vocazione di giudice e la sua dimensione spirituale non si può comprendere Rosario Livatino». Il giudice siciliano, conclude Airoma, «dimostra proprio che si può essere un fedele laico impegnato nelle istituzioni, senza nascondere la propria fede e vivendola nella propria professione».