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IL LIBRO

Santi da Leggenda, anche oggi un tesoro per i cristiani

Per secoli e secoli la Leggenda Aurea ha costituito un testo imprescindibile per i credenti. Infatti era una delle opere più copiate del Medioevo e più stampate. L’autore era un santo, anzi un beato: Jacopo da Varazze dell’Ordine dei Predicatori. Una sorta di task force di predicatori mendicanti a servizio del Papa.

Ecclesia 10_06_2016
La Leggenda Aurea di Jacopo da Varazze

Mai sentito parlare della Leggenda Aurea? No? Nemmeno di straforo? Eppure per un cattolico dovrebbe essere più nota del cardinal Martini. Per secoli e secoli ha costituito un testo imprescindibile per i credenti. Infatti era una delle opere più copiate del Medioevo e più stampate dopo che Gutemberg ideò il suo torchio. 

L’autore era un santo, anzi un beato: Jacopo da Varazze (oggi in quel di Savona). Nacque nel 1228 e si chiamava Jacopo di Fazio. Poi, entrato nel 1244 nei domenicani, divenne fra Jacopo da Varagine (Varago-Varaginis, nome latino della città) dell’Ordine dei Predicatori, da poco fondato da san Domingo de Guzmán. I predicatori erano stati creati per rispondere alla sfida dei catari, molto agguerriti nelle Scritture e attraenti per le masse perché austeri e vegetariani. A quel tempo solo ai vescovi era concesso predicare, ma questi non di rado soccombevano nelle dispute con gli eretici. I quali, un po’ come i Testimoni di Geova odierni, studiavano ed erano abili nella controversia, mentre i vescovi, dovendo occuparsi del governo (non di rado anche di quello civile), spesso non avevano tempo per altro. 

Da qui l’idea di san Domenico di una task force di predicatori mendicanti, capaci di altrettante preparazione e austerità, disponibili a recarsi dovunque su comando del Papa. Fino a quel momento l’ordine “erudito” nella Chiesa erano stati i canonici agostiniani, ma la clausura impediva loro la mobilità necessaria a opporsi, nelle piazze, alla prima grande eresia popolare, il catarismo. Perciò, Jacopo divenne uno studioso, un perfetto Domini cane anche nella santità di vita. Nel 1265 era già priore del suo convento e, dopo soli due anni, provinciale della Lombardia (che allora comprendeva quasi tutta l’Italia settentrionale). Nel 1288 fu chiamato a reggere la diocesi di Genova, ma rifiutò per umiltà. 

La gente insorse e nel 1293 fu costretto ad accettare a furor di popolo. A quel tempo all’arcivescovo di Genova non bastava, però, la santità, ci voleva anche una buona dose di sprezzo del pericolo, perché la Superba era dilaniata dalle lotte tra le grandi famiglie Fieschi, Doria, Spinola, e il sangue tra le fazioni scorreva ch’era un piacere. Jacopo più volte riuscì a mettere pace tra i clan, e la popolazione gliene fu grata. Da buon domenicano scrisse molte opere, tra cui I commentari a sant’Agostino e una Cronaca di Genova dalla fondazione della città al 1298, anno in cui il Beato morì. Ma il lavoro che lo rese famoso fin da subito fu la Leggenda delle vite dei Santi, poi chiamata, dai posteri, Aurea per il tema trattato. Si trattava di uno dei primi esempi sistematici di agiografia (lett.: scritti sui santi), da leggersi (lat.: legenda) una “vita” per volta il giorno della ricorrenza del Santo. 

I monaci a mensa mangiavano in silenzio mentre uno di loro leggeva testi religiosi. Jacopo intese aggiungere a queste letture le gesta degli eroi della fede. In latino, così che in tutta la cristianità si potesse usufruirne. Ma la sua scrittura era così semplice e lieve che il libro ebbe un successo travolgente e inaspettato, anche tra i laici. La sua diffusione fu impressionante. Si pensi che i manoscritti a tutt’oggi sopravvissuti sono più di millecinquecento, il che ci dà un’idea dello spropositato numero di copie che, fino all’avvento della stampa, ne furono fatte. Come spesso accadeva, però, per opere copiate a mano, non di rado qualche copista aggiungeva qualcosa di suo. Così, quando il protestantesimo si ostinò sulla sola Scriptura e il successivo positivismo richiese “scientificità” alle opere storiche (e le biografie lo sono), la Leggenda Aurea cominciò ad essere squalificata per l’imprecisione e, dunque, l’inattendibilità. 

Anzi, la parola “leggenda” prese a indicare un racconto inventato di cose antiche, da non prendere sul serio. In realtà Jacopo non aveva inventato nulla, ma si era documentato scrupolosamente sul materiale allora a disposizione. Non era colpa sua se, a quel tempo, la Storia non era una disciplina rigorosa come la intendiamo oggi (anche se la manipolazione non è mai morta, dipendendo dall’ideologia dello storico, il quale sceglie sempre i fatti da riportare in base al suo pre-giudizio, alcuni enfatizzando e altri sottacendo o minimizzando). Non solo. Jacopo voleva fare solo un’opera di edificazione, a uso di lettori cui della veridicità effettiva dei fatti narrati non importava affatto. 

Che importava, infatti, se le Undicimila Vergini martiri con sant’Orsola non fossero state davvero undicimila, ma molte meno? Quel che contava era l’esempio di fermezza nella fede. Lo capirono perfettamente quei grandi artisti, dal Beato Angelico a Piero della Francesca, che proprio dalla Leggenda Aurea trassero i loro soggetti. Per questo è una lettura consigliabilissima anche oggi, che di buoni esempi abbiamo più che mai bisogno. 

 

-Jacopo da Varagine, Leggenda Aurea (Libreria Editrice Fiorentina, trad. di Cecilia Lisi, 2 voll., pp. 1330, €. 40)