Sant'Antonio, la radicalità di Dio
Sant’Antonio non ha mai smesso di sentire la presenza di Dio, una presenza che si avverte più forte nella radicalità di una scelta importante. E questa presenza si sente specialmente se si diviene capaci di affidarsi a Dio, anche quando sembra difficile.
Molti anni fa, durante uno dei miei primi soggiorni in Macao, mi fu chiesto di dirigere un coro per la festa di sant’Antonio nel mese di giugno. Io dissi che ero contento di poter celebrare con loro sant’Antonio da Padova; allora il mio interlocutore portoghese disse: “Vorrai dire sant’Antonio da Lisbona”. Parlavamo dello stesso santo, ma le nazionalità giocavano un ruolo importante.
Ma di un altro Antonio, che la Chiesa festeggia il 17 gennaio, si conosce invece poco, anche se esso ha una certa popolarità nella devozione popolare. Sant’Antonio abate (o sant’Antonio eremita) fu grande figura del monachesimo egiziano. È conosciuto a livello popolare come protettore degli animali e per il “fuoco di sant’Antonio” (herpes zoster), malattia della pelle che ne fa per estensione anche il protettore di tutte le malattie della pelle.
Vissuto nel quarto secolo, scelse di seguire Dio in modo radicale, scoese la via del deserto e della solitudine. Una scelta che non lo risparmiò dalla lotta contro il demonio e dalla lotta contro le proprie debolezze e tentazioni. Si pensa che la vita di coloro che scelgono la solitudine e la preghiera debba essere tutta peace & love, ma in realtà proprio quando si è soli che le voci interiori cominciano ad uscire fuori in modo più prepotente. L’arte grande dell’eremita è quella dell’auto dominio. Nel suo libro Etica generale della sessualità (1992) il Cardinale Carlo Caffarra così si esprimeva sull’auto dominio: “Chi è intemperante nel mangiare e nel bere e sente un forte impulso ai piaceri della tavola può "arrestare" questo dinamismo attraverso un confronto razionale fra il bene (piacevole) legato al cibo e alla bevanda e il benessere fisico della salute: e certamente questo giudizio razionale può essere la base per un atto di auto-dominio. Trattandosi però di un confronto fra beni fra i quali non esiste una distanza infinita, l’auto-dominio (e l’integrazione) conseguente è sempre fragile e instabile. Qualora fosse inventata una medicina per evitare quelle cattive conseguenze sulla salute, l’auto-dominio cesserebbe molto probabilmente. Se, al contrario, l’arresto è compiuto attraverso un confronto razionale fra il bene (piacevole) legato al cibo e alla bevanda e il bene morale proprio della temperanza, poiché questa bontà è semplicemente tale, assoluta e incondizionata, l’auto-trascendimento è perfetto e l’eventuale auto-dominio è perfetto. Se si tratta di una persona credente essa vede l’infinita bellezza presente nella sequela di Cristo temperante, e l’auto-trascendimento è ancora più perfetto”. Solo chi sa trascendere se stesso per ascendere alle altezze di Dio può godere della visione che consiste nella infinita bellezza di Cristo. Ma non è da tutti.
E anche Antonio, come detto, dovette lottare non poco. Un testo di Antonio Borrelli su santiebeati.it ci offre questa descrizione: “Dopo qualche anno di questa esperienza, in piena gioventù cominciarono per lui durissime prove. Pensieri osceni lo tormentavano, l’assalivano dubbi sulla opportunità di una vita così solitaria, non seguita dalla massa degli uomini né dagli ecclesiastici. L’istinto della carne e l’attaccamento ai beni materiali, che aveva cercato di sopire in quegli anni, ritornavano prepotenti e incontrollabili. Chiese dunque aiuto ad altri asceti, che gli dissero di non spaventarsi, ma di andare avanti con fiducia, perché Dio era con lui. Gli consigliarono anche di sbarazzarsi di tutti i legami e di ogni possesso materiale, per ritirarsi in un luogo più solitario. Così, ricoperto appena da un rude panno, Antonio si rifugiò in un’antica tomba scavata nella roccia di una collina, intorno al villaggio di Coma. Un amico gli portava ogni tanto un po’ di pane; per il resto, si doveva arrangiare con frutti di bosco e le erbe dei campi. In questo luogo, alle prime tentazioni subentrarono terrificanti visioni e frastuoni. In più, attraversò un periodo di terribile oscurità spirituale: lo superò perseverando nella fede, compiendo giorno per giorno la volontà di Dio, come gli avevano insegnato i suoi maestri. Quando alla fine Cristo gli si rivelò l’eremita chiese: «Dov’eri? Perché non sei apparso fin da principio per far cessare le mie sofferenze?». Si sentì rispondere: «Antonio, io ero qui con te e assistevo alla tua lotta…»”.
La vita è una lotta fra bene e male e si può fuggire lontano dal mondo, ma mai lontani da se stessi. Questa è la buona battaglia di cui ci ha parlato san Paolo. Una continua fatica di vivere, per cercare di vincere se stessi e tendere a quella perfezione che Dio ci richiede. Ancora san Paolo ci parlava di aver teminato la corsa, questa idea della vita come sforzo (correndo ci si stanca). Ma questo sforzo non vede Dio assente, ma lotta con noi. In un altro bel testo del cardinale Caffarra (Vangelo della vita e cultura della morte 1992) viene data questa bella immagine: “Il Vangelo della vita è in primo luogo un atto di Dio stesso: una sua decisione che prende corpo in una precisa storia concreta, la storia umana del Figlio fattosi uomo. Di fronte ad un uomo che è caduto in una corrente d’acqua ed è incapace di nuotare e quindi destinato a morte sicura, chi sta sulla riva può fare tre cose per salvarlo. O gli insegna come si fa a nuotare, nella speranza che abbia il tempo di impararlo e la forza di farlo. O gli getta una corda sperando che possa prenderla ed abbia la forza di tenerla stretta fino alla riva. Oppure, infine, si getta egli stesso nella corrente, lo stringe con tutta la sua forza e lo trascina a riva, sperando che egli non si divincoli.
L’uomo, ciascuno di noi (come vedremo meglio in seguito), si trova immerso nella corrente che lo trascina a morte sicura, incapaci come siamo di nuotare. Dio non si è accontentato della riva della sua beata e sicura eternità di insegnare all’uomo, a ciascuno di noi, come si fa a nuotare, quale è la via della salvezza. Nella sua disperazione, l’uomo non aveva né il tempo di sentire questa dottrina, né la forza di metterla in pratica. Dio non si è neppure accontentato di lanciare nell’acqua una corda di salvataggio: l’uomo, ciascuno di noi è troppo stanco per aggrapparsi. Dio si è buttato in acqua. Ha condiviso la nostra condizione di disperati e votati alla morte. Ha lasciato la sua riva, beata e ferma, e si è immerso nelle nostre acque infide e travolgenti. Ha stretto a sé l’uomo ("con la sua Incarnazione il Figlio stesso di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo") e lo ha trasportato sulla sua riva: sulla riva della sua eterna beatitudine. "O ammirabile scambio. — esclama la Liturgia cristiana — Il Creatore ha preso un’anima ed un corpo ed è nato da una Vergine; fatto uomo senza opera d’uomo ci donò la sua divinità" (Ottava del Natale, II Vespri, 1a Antifona). Il dono della sua divinità, l’arrivo della "terra ferma" dell’Essere e della Vita, accade precisamente, originariamente nel fatto del suo divenire uomo. Non ci ha insegnato a nuotare; ci ha liberati dalle acque”.
Ecco, pur essendo nella corrente, Sant’Antonio non ha mai smesso di sentire la presenza di Dio, una presenza che si avverte più forte nella radicalità di una scelta importante. E questa presenza si sente specialmente se si diviene capaci di affidarsi a Dio, anche quando sembra difficile. Nei racconti dei padri del deserto, c’è questo su Antonio: “Un giorno il santo padre Antonio, mentre sedeva nel deserto, fu preso da sconforto e da fitta tenebra di pensieri. E diceva a Dio: «O Signore! Io voglio salvarmi, ma i pensieri me lo impediscono. Che posso fare nella mia afflizione?». Ora, sporgendosi un po’, Antonio vede un altro come lui, che sta seduto e lavora, poi interrompe il lavoro, si alza in piedi e prega, poi di nuovo si mette seduto a intrecciare corde, e poi ancora si alza e prega. Era un angelo del Signore, mandato per correggere Antonio e dargli forza. E udì l’angelo che diceva: «Fa’ così e sarai salvo». All’udire quelle parole, fu preso da grande gioia e coraggio: così fece e si salvò (76b; PJ VII, 1). Il padre Antonio, volgendo lo sguardo all’abisso dei giudizi di Dio, chiese: «O Signore, come mai alcuni muoiono giovani, altri vecchissimi? Perché alcuni sono poveri, e altri ricchi? Perché degli empi sono ricchi e dei giusti sono poveri?». E giunse a lui una voce che disse: «Antonio, bada a te stesso. Sono giudizi di Dio questi: non ti giova conoscerli» (76c; PJ XV, 1)”. Insomma, non cessare di pregare anche se ci si trova nei gorghi della corrente e ci si sente sprofondare. Divo Barsotti diceva: “Non si lasci prendere dalla tentazione. Guardare il fondo della nostra debolezza, considerare troppo la nostra miseria è pericoloso - l’abisso ci attira e ci trae giù. Guardi Dio” (Amatissimo dal Signore...). Questo sguardo a Dio ha fatto Antonio un santo. E non c’è altra strada che questa.
Al momento di morire, come ci viene riportato nella sua vita scritta dal suo discepolo Anastasio, tra l’altro disse: “Io, come sta scritto, me ne vado per la via dei padri. Vedo che il Signore mi chiama. Voi siate vigilanti, non lasciate che la vostra lunga ascesi si perda, ma preoccupatevi di tener viva la vostra sollecitudine come se cominciaste soltanto adesso. Conoscete le insidie dei demoni, sapete quanto sono feroci eppure deboli. Non temeteli, dunque, ma respirate sempre Cristo e abbiate fede in lui. Vivete come se doveste morire ogni giorno, vigilate su voi stessi e ricordate le esortazioni che avete udite da me”. Non poteva usare parole più belle.