Sanità devastata. E Draghi ci ha lasciato altri tagli per il 2023
La gestione del Covid ha solo dato il colpo di grazia a un Sistema sanitario già in grave crisi: dal 2010 al 2020 sono stati chiusi 111 ospedali e 113 punti di Pronto Soccorso; tagliati 37mila posti letto e 29mila sanitari. Drastico calo anche delle attività di day hospital e day surgery. E malgrado ciò i costi della sanità sono aumentati. E per il 2023 il governo Draghi ha già previsto un ulteriore taglio di 15 miliardi di euro.
L’agenda di impegni del Ministro Schillaci è densa di questioni urgenti da affrontare. Anche se il fuoco di sbarramento nei suoi confronti si è focalizzato sulla questione Covid, o meglio sulla strategia vaccinale che per i nostalgici del regime di Draghi e Speranza rappresenta una linea del Piave da non oltrepassare, in realtà le questioni scottanti che attendono il ministro sono altre: l’epidemia del Covid ha mostrato enormi falle e carenze di un sistema sanitario che da tempo immemore attende.
La prima grana che il ministro Schillaci dovrà affrontare riguarda il taglio dei fondi per la spesa sanitaria dal prossimo anno, già prevista dal governo Draghi. Si stima un taglio complessivo di circa 15 miliardi di euro rispetto all’anno scorso. Le Regioni, cui compete la gestione del servizio sanitario, col precedente governo obbedientemente allineate, ora minacciano barricate, lamentando che la stretta sulla spesa sanitaria renderà praticamente impossibile attuare la riforma del territorio prevista dal Pnrr.
C’è poi la questione delle liste d’attesa: Il ministro ha già dichiarato che è sua precisa volontà quella di mettere fine alle attuali lunghissime liste d’attesa per la diagnostica, e anche per gli interventi chirurgici (classificati come non d’urgenza) sospesi e rimandati durante l’epidemia quando gli ospedali divennero dedicati al Covid. Un problema che sarà molto complicato risolvere, perché in realtà i mali del sistema sanitario e in particolare della rete ospedaliera vengono da lontano, da ben prima del Covid, da scellerate decisioni politiche.
L’opinione pubblica dovrebbe sapere che nel decennio 2010-2020, che ha preceduto l’epidemia, in Italia sono stati chiusi 111 ospedali e 113 punti di Pronto soccorso. Ciò ha significato il taglio di 37 mila posti letto e si sono avuti oltre 2 milioni di giorni di ricovero in meno. E questo senza offrire in cambio nulla: né assistenza domiciliare, né medicina sul territorio. Una bieca sforbiciata alle spese, a scapito delle necessità dei cittadini.
Oltretutto, di fronte a un progressivo invecchiamento della popolazione, che significa maggiori richieste di cure per patologie cronico-degenerative in aumento negli anziani, che sono stati e ancora sono coloro che fanno le spese di questa diminuita disponibilità di posti letto. Che ha significato anche cospicue diminuzioni nel numero del personale sanitario, ospedaliero, che nel decennio esaminato è diminuito di 29.000 unità.
Fu in queste condizioni che il sistema sanitario arrivò ad affrontare il Covid nel marzo del 2020, e anche questo fatto ha contato pesantemente nella pesante debacle della sanità italiana nei confronti dell’epidemia. Paesi come Germania o Gran Bretagna avevano una percentuale di posti di rianimazione del 10% superiore a quella del Belpaese.
Numeri che, a cascata, hanno comportato una riduzione drastica dell’attività sanitaria: dall’analisi dei dati 2010-2020 gli accessi in Pronto soccorso risultano in calo, ma il tasso di mortalità è aumentato dell’85%
Come si accennava, il taglio dei posti letto non ha trovato soluzioni alternative, nemmeno grazie alle attività di day hospital e day surgery: anche queste nel corso del decennio considerato risultano diminuite, rispetto al 2010, di 1,27 milioni nel 2019 e di 1,73 milioni nel 2020. Sul territorio la situazione è altrettanto critica, considerato che nel 2020 sono state erogate 282,8 milioni di prestazioni in meno rispetto a dieci anni prima: -19% di indagini di laboratorio, -30% di attività di radiologia diagnostica e -32% di attività clinica ambulatoriale.
Sono solo alcuni dei numeri che emergono dall’analisi condotta dal sindacato dei medici Federazione CIMO-FESMED (aderente a CIDA e a cui aderiscono le sigle ANPO-ASCOTI, CIMO, CIMOP e FESMED), confluita nel dossier “Sanità: allarme rosso. Gli effetti sul Servizio Sanitario Nazionale di dieci anni di tagli”: dall’analisi delle strutture, dei posti letto e delle risorse umane del SSN, il documento passa in rassegna l’offerta sanitaria degli ultimi 10 anni e analizza rapidamente i cambiamenti registrati in termini di risorse economiche.
C’è un altro aspetto sul quale andrebbe posta l’attenzione: il taglio delle attività, delle strutture e del personale, era motivato da scelte economiche, di risparmio sulla spesa sanitaria, ma in realtà i costi del Servizio Sanitario Nazionale in questo periodo sono aumentati di oltre il 10%, e questo nonostante le entrate siano incrementate dell’11% fino al 2019 e del 16,2% nel 2020. C’è evidentemente qualcosa che non va.
Ma oltre al problema dei costi economici, c’è un grave costo umano che deve essere affrontato. Oltre ai disservizi che quotidianamente i pazienti subiscono negli ospedali di tutta Italia a causa della carenza di personale sanitario, l’Istat inizia anche a rilevare segnali che, seppur lievi, dovrebbero far riflettere: la mortalità per tumori è aumentata, così come quella per diabete mellito, malattie del sangue e disturbi immunitari, malattie del sistema nervoso e del sistema circolatorio, polmonite e influenza. Nel 2010, il 38,6% della popolazione aveva almeno una malattia cronica e il 20,1% ne aveva almeno due. Nel 2020, entrambi i dati risultavano aumentati rispettivamente fino al 40,9% e al 20,8%.
Un trend di crescita destinato a proseguire nei prossimi anni, che renderà necessario un livello maggiore e migliore di assistenza sanitaria. Sono questi i problemi drammatici che dovranno essere prioritariamente affrontati dal Ministro della Salute.