San Francesco arriva anche in Burundi
La straordinaria vicenda africana
di padre Giacomo Massa, là dove aiutare il prossimo per amore di Cristo
è tutt'altro che un cliché.
Quarant’anni di vita dedicati alla promozione della missione in Burundi, 82 anni il prossimo 4 agosto, padre Giacomo Massa è un frate francescano che vive oggi presso la comunità della Spezia dopo aver per quindici anni svolto il compito di ministro provinciale di Genova. Scopriamo con lui come l’esempio di san Francesco d’Assisi sia giunto fino nella terra degli hutu e dei tutsi.
Padre Giacomo, che Paese è il Burundi?
Un Paese relativamente tranquillo, ora. Dopo decenni di guerre civili tra le due etnie dominanti, gli hutu e i tutsi, si assiste da qualche anno a una stagione positiva. Si è votato anche l’anno scorso e il presidente uscente è stato confermato con circa il 70% dei consensi.
Gli abitanti del Burundi in quale Dio credono?
Il Burundi è al 75% composto da cristiani, 60% cattolici e 15% protestanti. Il rimanente 25% si divide tra l’antica religione animista, comune a molti Paesi dell’Africa, e l’islam. Nel ‘900 il processo di evangelizzazione della popolazione ha avuto grande successo e sia da parte degli hutu sia dei tutsi abbiamo assistito a una conversione convinta al cristianesimo. Gesù è entrato nella loro vita e ha anche cambiato profondamente la loro esistenza, rendendola più consapevole e più piena.
Ci sono stati anni difficili?
Eccome! La nostra missione è stata fondata anche attraverso il mio contributo nell’ormai lontano 1974. Ho avuto per molti anni la completa responsabilità della nostra presenza in Burundi, recandomi più volte lì e fermandomi per diversi mesi. Ora, complice l’età, ci vado solo una volta l’anno. I confratelli e i laici che operano alla missione cercano di non farmi stancare troppo. Gli anni difficili hanno visto contrapporsi con enorme spargimento di sangue le due etnie. Tenga presente che in Burundi i tutsi, avendo il controllo dell’esercito, hanno per anni governato il Paese pur esprimendo appena il 15% della popolazione. Stiamo parlando di un Paese piccolo, che ancora oggi ha meno di 9 milioni di abitanti. Ebbene: ogni volta che si accendeva la miccia dello scontro si verificava una vera e propria carneficina che mieteva centinaia di migliaia di vittime. I media ci hanno abituato a ricordare più da vicino le vicende del Ruanda, ma i due stati sono fratelli, condividono la presenza dei due ceppi etnici ma con vicende opposte tra loro. Nel 1972 col pretesto di un tentativo di colpo di stato da parte degli hutu, il governo si rese responsabile del genocidio più grande della storia del Burundi. Vi fu una strage selettiva di tutti i quadri hutu a tutti i livelli: amministratori, magistrati, insegnanti, militari, religiosi. Le vittime furono 400mila e 500mila i profughi costretti a fuggire nello Zaire e in Tanzania. Il massacro è ricordato col nome di ikiza, il flagello.
Un nuovo colpo di stato, nel 1976, portò alla presidenza Jean-Baptiste Bagaza che continuò la politica selettiva a danno degli hutu, anche se di bassa intensità, operando il cosiddetto genocidio intellettuale: agli studenti hutu venne impedito l'accesso alle scuole superiori. L’ostilità di Bagaza si rivolse anche contro la Chiesa e in particolare contro i sacerdoti: fummo espulsi dal Burundi per due anni ma fu possibile salvare la missione grazie all’impegno dei laici. Nel tempo poi la situazione è andata migliorando e praticamente tutti i nuovi presidenti stabilirono un rapporto favorevole nei nostri confronti, soprattutto perché il bene che portiamo alla popolazione è indubbio. Il successo dell’evangelizzazione in Burundi e il miglioramento dei rapporti con le autorità del Paese resero possibile la visita di Giovanni Paolo II nel 1990.
Come si svolse la visita del pontefice?
Brevemente. Il Papa giunse in Burundi nell’ambito di un tour nel continente africano e si trattenne in Burundi soltanto tre giorni, recandosi nella capitale e nella città di Ghitega dove abbiamo potuto celebrare con lui la santa Messa.
Che cosa le è rimasto impresso di quella giornata?
Giovanni Paolo II chiese di avere vicini i lebbrosi e i bambini. In particolare la scelta dei lebbrosi ha avuto una straordinaria forza testimoniale. L’arrivo del Papa in Burundi è stato uno splendido coronamento degli sforzi fatti nel tempo, ma anche l’impulso decisivo alla pacificazione e alla democratizzazione, per non parlare dei diritti civili.
I diritti civili?
Come le ho detto, agli hutu per anni fu precluso l’accesso a scuole superiori e università, così i tutsi si garantivano l’egemonia nella società. Ora per fortuna l’educazione è possibile per tutti e noi francescani, naturalmente, costruiamo scuole…
Soltanto scuole? Può raccontarci di cosa fate esattamente in Burundi voi francescani?
Vado molto orgoglioso del nostro impegno missionario. Abbiamo un parrocchia retta da confratelli indigeni ma al culto abbiamo sempre affiancato un impegno caritatevole che è seguito precipuamente dagli italiani anche perché occorre il massimo rigore nella gestione delle risorse. Siamo partiti - mi piace sottolinearlo - privilegiando i lebbrosi. Negli anni ’70 erano moltissimi, siamo arrivati addirittura a seguirne alcune centinaia. Ora sono pochi e il contagio è ridotto al minimo, si tratta ormai di un fenomeno sotto controllo. Parallelamente abbiamo iniziato ad occuparci dei bambini, aiutando coloro che non hanno più nessuno in un villaggio interamente costruito da noi. Abbiamo allevato bambini dai primi giorni di vita fino alle scuole medie. Poi, oltre i 16 anni, li appoggiamo a qualche famiglia e, se non troviamo soluzioni, li sistemiamo in case che devono autogestirsi. I più bravi - attualmente 74 ragazzi - stanno frequentando l’università nella capitale, mentre molti altri sono padri di famiglia che aiutiamo nel costruirsi una casetta e nell’apprendere come si coltiva la terra. La civilizzazione del Burundi è passata molto attraverso la Chiesa cattolica. Siamo ben organizzati, con un nunzio e otto vescovi. Ciò nonostante, la Chiesa locale non dispone di risorse se non fosse per i missionari che sono però sempre meno. Lavoriamo anche nel settore della formazione, dedicandoci ai batwa.
Chi sono i batwa?
Una popolazione che rappresenta il 3-4% del totale degli abitanti del Burundi, ma sono stati da sempre sottomessi da hutu e tutsi, tanto è vero che solo ultimamente - grazie all’impegno dei missionari cattolici - sono stati promossi a dignità umana. Deve pensare che si tratta di gente che non è mai stata neppure censita, sono senza fissa dimora che vivono al di sotto del livello delle capanne, abitando piccoli tuguri di paglia.
Come rispondono all’educazione?
Bene, si sentono valorizzati e premiati ed è su questo che puntiamo nell’educarli. Ogni 15 giorni ricevono un minimo di istruzione - si tratta di un popolo di analfabeti – e viene trasmessa loro un poco di educazione familiare e qualche rudimento relativamente alla coltivazione del terreno. Guardi che però mica facciamo solo questo?
Ah, non “solo” questo? E che altro allora?
Ci occupiamo dei bambini portatori di handicap. Un confratello di Milano, frate Giuseppe, segue quotidianamente questi ragazzini afflitti da forme estreme. Grazie al sistema delle adozioni a distanza aiutiamo la crescita di un gran numero di bambini e poi abbiamo anche il nostro progetto sanitario che comprende infermeria, farmacia, due studi dentistici e uno oculistico. E ora stiamo lavorando alla realizzazione di una piccola sala operatoria per gli interventi più semplici. Per non parlare della necessità di acquedotti, l’acqua potabile è di importanza primaria per evitare la diffusione di ogni genere di malattia.
E le vocazioni?
Dipendono molto dagli istituti religiosi. I seminari, in generale sovrabbondano di giovani e questo è favorito dal fatto che, date le difficilissime condizioni di vita, non si tratta per loro di affrontare una vita così dura. Numerose sono anche le vocazioni negli istituti femminili e questo anche perché le donne, come dappertutto in Africa, soffrono una condizione di inferiorità e sudditanza all’uomo.