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San Felice di Nola

In virtù della vita esemplare, san Felice di Nola morì già in fama di santità e la sua tomba, posta nella vicina Cimitile e fonte di miracoli, fu detta Ara Veritatis per la sua efficacia nel trionfo della verità contro la falsa testimonianza

Santo del giorno 14_01_2024 English Español

«Oh, martire Felice […], tu gettasti in me con opere efficaci di salvezza i primi germi dei beni celesti, nella speranza che io potessi raggiungerli», scriveva san Paolino di Nola (355-431) in uno dei 14 «carmi natalizi» a noi pervenuti, così chiamati perché scritti di anno in anno per il dies natalis di san Felice di Nola (†14 gennaio, dopo il 250), verso il quale era devotissimo perché attribuiva l’inizio della sua conversione all’intercessione del santo. I carmi di Paolino, originario di Bordeaux e che a Nola aveva vissuto in un primo tempo da senatore e vi si era definitivamente stabilito verso il 394 poco dopo l’ordinazione sacerdotale, rappresentano la prima elaborazione scritta della tradizione orale dei nolani su Felice.

Il santo era nato a Nola da un ricco siriano, che si trovava lì per lavoro. Dopo la morte del padre aveva venduto gran parte dei beni e distribuito il ricavato ai poveri, consacrandosi a Cristo come sacerdote e divenendo collaboratore del vescovo Massimo. Quest’ultimo, durante le persecuzioni di metà III secolo (il quadro fornito da Paolino è compatibile anche con quelle del 303-305, sotto Diocleziano), dopo essersi speso per difendere i cristiani, si rifugiò anziano e malato su una montagna e affidò la cura della diocesi a Felice, che avrebbe voluto come suo successore. Il prete fu imprigionato e sottoposto a durissime torture, ma si rifiutò di sacrificare alle divinità pagane e riaffermò la sua fede cristiana. Un angelo lo liberò e lo condusse nel luogo dove, solo e stremato dagli stenti, si era rifugiato Massimo, che Felice rifocillò con il succo di un’uva maturata miracolosamente fuori stagione e caricandoselo sulle spalle lo riportò in città, dove il vecchio vescovo fu affidato alle cure di una cristiana e morì qualche tempo dopo.

Felice sfuggì a un altro tentativo di arresto rifugiandosi per sei mesi dentro una cisterna abbandonata, dove fu nutrito da una donna. Al cessare delle persecuzioni, quando il popolo lo avrebbe voluto come nuovo vescovo, declinò l’offerta dell’episcopato in favore di Quinto, rinunciò ad avvalersi dell’editto sulla restituzione dei beni che gli erano stati confiscati dalle autorità imperiali e trascorse il resto dei suoi giorni in povertà e preghiera. Non si conosce l’anno esatto della morte, ma fu da allora venerato come martire (l’attuale Martirologio lo ricorda come «invitto confessore della fede») per il modo in cui aveva accettato le continue sofferenze a causa della fede, rimanendo sempre saldo in Cristo. In virtù della vita esemplare, morì già in fama di santità e la sua tomba, posta nella vicina Cimitile e fonte di miracoli, fu detta Ara Veritatis per la sua efficacia nel trionfo della verità contro la falsa testimonianza.

Poiché il suo sepolcro, sul quale era stato eretto un piccolo santuario, era meta di numerosissimi pellegrinaggi, all’inizio del V secolo Paolino fece edificare una nuova basilica in onore di san Felice per accogliere la grande folla di fedeli che vi andava a pregare. Nello stesso luogo sorsero nei secoli altre cinque basiliche, facendo di Cimitile, il cui nome deriva da Cimiterium, uno dei maggiori siti paleocristiani d’Italia. Il santo commemorato oggi non va confuso con un omonimo santo e vescovo nolano del I secolo.