Salvini e Meloni, gli “sfascisti” del centrodestra
La candidatura di Giorgia Meloni, in contrapposizione a quella di Guido Bertolaso, toglie definitivamente al centrodestra ogni chance di arrivare al ballottaggio a Roma. Sintomo di tutte le fragilità di una coalizione che dovrebbe lavorare per un’alternativa a Renzi e che invece finisce per consolidarne la supremazia.
Chi l’avrebbe mai detto, soltanto qualche anno fa, che il centrodestra si sarebbe ridotto così? Un leader federatore e carismatico come Berlusconi degradato a comparsa, un insieme di capetti più avvezzi alla passerella che non all’elaborazione politica, una congerie di sigle che si contendono un consenso ormai in libera uscita.
La campagna elettorale per il Campidoglio sta mettendo a nudo le fragilità di una coalizione che dovrebbe lavorare per un’alternativa a Matteo Renzi e che invece, volutamente o inconsapevolmente, finisce per consolidarne la supremazia. La candidatura di Giorgia Meloni, in contrapposizione a quella di Guido Bertolaso, toglie definitivamente al centrodestra ogni chance di arrivare al ballottaggio per la conquista del Comune di Roma. Basta fare due conti: Meloni, Bertolaso, Storace e forse anche Flavio Tosi si divideranno le spoglie di un’area politica che viene accreditata, nella Capitale, di non più di un terzo dell’elettorato.
A quel bacino peraltro attinge a piene mani anche Alfio Marchini, che però appare più “ecumenico” e in grado di pescare in molti altri ambienti (lo stesso Francesco Rutelli sarebbe molto attivo nel sostenerlo). A meno di clamorose sorprese, al secondo turno arriveranno il candidato del Pd, Roberto Giachetti, e la grillina Virginia Raggi. Solo Marchini ha qualche chance di sovvertire il pronostico.
E allora chi gliel’ha fatto fare alla Meloni di buttarsi nella mischia, scompaginando le carte e rendendo per il centrodestra la partita per il Campidoglio una mission impossible? Sarebbe un errore tentare di dare spiegazioni soltanto limitate all’ambito romano. La partita è nazionale ed è ormai chiarissima. Riguarda la leadership del futuro centrodestra, ammesso e non concesso che in tempi brevi ne nasca uno credibile. In Forza Italia c’è nostalgia di Patto del Nazareno, la minoranza Pd alza il prezzo con Renzi e quest’ultimo, per non correre rischi, potrebbe riaprire il cantiere delle riforme e il dialogo con i berlusconiani (peraltro mai interrotto), così da salvare il governo, proseguire la legislatura e prepararsi a costruire un Partito della Nazione che somigli tanto alla vecchia Democrazia Cristiana.
All’ex Cavaliere, che si rende conto dell’inesorabile dissolvimento di Forza Italia e della fine del suo ciclo politico, stanno a cuore le sue aziende, considerate anche le divisioni tra i suoi figli, e non c’è più spazio per sentimentalismi e battaglie di principio. Continuare ad avere un alleato a Palazzo Chigi e contribuire a garantirgli, attraverso un patto (non dichiarato) di non belligeranza, un altro “giro di giostra” fino al 2022-2023, può voler dire dormire sonni tranquilli. Non è un mistero che Berlusconi si fidi decisamente più di Renzi che non dei suoi alleati. Ieri è tornato a chiamare “ex fascisti” i dirigenti e i militanti di Fratelli d’Italia; eppure era stato proprio lui, negli anni Novanta, a sdoganarli, sempre a Roma, in occasione della presentazione della candidatura a sindaco di Gianfranco Fini, in contrapposizione a Francesco Rutelli. Oggi punta a marginalizzarli nuovamente.
Salvini e Meloni hanno capito il gioco e mirano a creare in Italia un blocco lepenista accreditato di un 15-18% su base nazionale, in grado di condizionare qualsiasi ipotetico governo di centrodestra, sia nelle città che a Palazzo Chigi. Molti forzisti, invece, hanno attaccato la scelta di Giorgia Meloni di candidarsi alla poltrona di sindaco, il che, di riflesso, rende più precaria l’alleanza di centrodestra anche in altre città. Non è un caso che a Torino si stia aprendo in queste ore un altro fronte di scontro Lega-Forza Italia, con Salvini che è tornato a mettere in discussione la candidatura dell’azzurro Osvaldo Napoli.
Salvini gioca, infatti, una partita per la guida della coalizione, che vorrebbe per sé, e vede, dunque, come fumo negli occhi i disegni neocentristi di molti berlusconiani, che vorrebbero creare con Alfano, Verdini, Fitto, Area popolare e altri un’area moderata in grado di condizionare il governo e di preparare un’alternativa. Tante figure come lo stesso Marchini e Corrado Passera potrebbero, dopo le amministrative, aggregarsi a questo progetto e lavorare per un dopo-Renzi. Perfino Roberto Maroni, che ieri ha attaccato la scelta di Giorgia Meloni di scendere in campo, potrebbe dar vita a una clamorosa scissione dentro il Carroccio.
Berlusconi, quindi, lavora su due tavoli: quello della trattativa con Renzi, al quale garantisce una “morbida” opposizione in Senato e candidati deboli o divisivi alle amministrative; in subordine, quello dell’alternativa al premier, ove il governo saltasse per colpa della sinistra anti-Renzi. In questa seconda ipotesi, però, nei disegni di Arcore non ci sarebbe un governo Salvini, ma un governo… Marchini, gradito ai poteri forti, ai salotti buoni e a gran parte dell’elettorato moderato. Ecco perché, se Marchini arrivasse al ballottaggio, il Campidoglio potrebbe diventare il laboratorio di un nuovo centrodestra. E comunque vada, l’imprenditore romano è destinato a giocare un ruolo politico nazionale.