"Salva Berlusconi" tanto rumore per così poco
La polemica sulla norma “salva-Berlusconi” avrebbe avuto ben altre intonazioni se non si fosse intrecciata con la corsa al Quirinale e con il dibattito sulla riforma elettorale. Il provvedimento in sé, fissare al 3% la soglia di non-punibilità per evasione fiscale, era sacrosanto.
La polemica sulla norma “salva-Berlusconi” avrebbe avuto ben altre intonazioni se non si fosse intrecciata con la corsa al Quirinale e con il dibattito sulla riforma elettorale.
Si può discutere se la misura del 3% come soglia di non punibilità per l’evasione fiscale sia congrua, ma non si può affatto negare che quella norma risponda ad esigenze sacrosante e unanimemente percepite di snellimento dei carichi giudiziari. Prevedere che chi evade il fisco in misura minima, spesso per errori di calcolo e non per furbizia o malafede, possa essere punito con una sanzione amministrativa anche doppia senza essere perseguito penalmente, appare più che ragionevole. E risponde a un criterio di civiltà giuridica e di maturità democratica. Che poi questa norma possa determinare la riduzione del periodo di esclusione dalla vita politica attiva del leader dell’opposizione, condannato in via definitiva per aver evaso meno del 2% del suo imponibile dichiarato è un altro discorso, che non dovrebbe incidere in alcun modo sulle scelte legislative.
Ma siamo in Italia e la paralizzante dialettica tra acritica partigianeria filoberlusconiana e antiberlusconismo becero e preconcetto rischia di impedire anche l’approvazione di leggi che servirebbero a rilanciare la produzione industriale e ad allontanare lo spettro di un fisco vorace che perseguita anche i piccoli evasori e magari ignora quelli grandi. E su questo punto stupisce il silenzio di Confindustria, di Confartigianato e di tutte le organizzazioni imprenditoriali che avrebbe dovuto insorgere per il ritiro di una misura dettata dal buon senso.
Ma al di là del merito del provvedimento, bisogna addentrarsi nelle alchimie che lo avrebbero determinato. Esiste, come ha insinuato la grande stampa, un accordo Berlusconi-Renzi anche su questo? Il movente dell’inserimento dell’articolo 19bis nel decreto fiscale è davvero il presunto scambio tra voti berlusconiani per il Quirinale e codicilli a favore dell’ex Cavaliere? E chi c’è dietro la “manina” che, nel percorso del provvedimento dal Ministero dell’Economia a Palazzo Chigi, ha inserito quell’articolo, poi approvato in Consiglio dei ministri il 24 dicembre scorso? La dietrologia sull’argomento sta raggiungendo in queste ore livelli parossistici, ma la sostanza è che questo pasticcio sul provvedimento “salva-Berlusconi” rischia di frenare la corsa al Quirinale del Ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, che sembrava in pole position. Renzi si è preso tutte le responsabilità di quella figuraccia, ha ritirato il decreto, ma ha annunciato che esso verrà ripresentato (magari con la modifica della soglia di non punibilità, in caso di evasione fiscale, dal 3 all’1,5% dell’imponibile dichiarato) quando Berlusconi avrà terminato il suo periodo di affidamento ai servizi sociali (metà febbraio) e quando l’Italia avrà un nuovo Presidente della Repubblica.
Una dichiarazione infelice, quella del premier, che non ha difeso a spada tratta il provvedimento, come avrebbe dovuto, ma neppure ha allontanato le ombre di inciucio con Berlusconi, né quelle di un utilizzo, da parte di Palazzo Chigi, di questa arma del decreto fiscale per condizionare le scelte berlusconiane sul nuovo inquilino del Quirinale. L’obiettivo di portare allo scoperto l’articolo 19bis per impedirne l’approvazione potrebbe essere stato quello di frenare la corsa al Colle del Ministro Padoan, figura di secondo piano, incline al low profile, quindi non in grado di fare ombra al premier, ma, nel contempo, personalità apprezzata in ambienti internazionali per le sue competenze economico-finanziarie, già consulente di Amato e D’Alema, ben visto dal Cavaliere anche se vicino alla sinistra. D’altronde, già due anni fa Berlusconi, capendo di non poter proporre un suo candidato al Colle, fece di tutto per far eleggere al Quirinale Franco Marini, anch’egli di sinistra, ma moderato di tradizione democristiana e quindi aperto e dialogante anche con il centrodestra.
Chi aveva dunque interesse a far divampare la polemica sul decreto fiscale? Forse il vasto raggruppamento che vuole mandare in frantumi il Patto del Nazareno, e che comprende i dissidenti Pd (Fassina e Civati, ma anche, più defilati, Cuperlo e Bersani), i dissidenti di Forza Italia (la pattuglia dei parlamentari che fa capo a Raffaele Fitto), i centristi (Ncd, Scelta civica e altri), Lega, Fratelli d’Italia, grillini meno oltranzisti e pronti a votare un candidato moderato al Quirinale, vendoliani ed estremisti di sinistra. Se si eccettuano la Lega Nord e Fratelli d’Italia, che ben difficilmente riusciranno ad entrare nella partita per l’elezione del successore di Napolitano, tutte le altre forze politiche temono di rimanere stritolate nella morsa dell’accordo tra Renzi e Berlusconi e puntano a far eleggere al Quirinale una figura alternativa a Padoan. Romano Prodi resta il più spendibile, ma nomi come quello di Pierferdinando Casini o candidature “rosa” (Severino, Finocchiaro, Bonino) potrebbero farsi largo dopo i primi tre scrutini. E se si arrivasse al “muro contro muro”, con franchi tiratori in tutti gli schieramenti e un rischio impasse come fu nel 2013, quando ci fu la riconferma di Napolitano, quale nome potrebbe rassicurare i mercati, accontentare l’Europa e siglare una tregua tra l’asse Berlusconi-Renzi e i nemici del Patto del Nazareno? Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia, gradito anche all’ex Cavaliere, che lo nominò governatore nell’ottobre 2011 al posto di Mario Draghi, designato alla guida della Banca centrale europea. Forse è un altro nome che qualcuno intende bruciare, ma intanto circola. E presto si capirà anche con quale attendibilità.