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L'INCONTRO DI ANKAWA

Sako rilancia la missione della Chiesa irachena

La Chiesa caldea, esule nel suo stesso Iraq, ci ha sorpreso ancora una volta, non solo con la sua fede profonda, ma anche con una lezione di vita per ogni comunità cristiana. Su iniziativa del patriarca Luis Raphael Sako, infatti, tutti i sacerdoti caldei dell'Iraq si sono riuniti per un incontro ad Ankawa, il sobborgo cristiano di Erbil divenuto la sede patriarcale di fatto di una Chiesa che non può stare lontano dal suo gregge.

Ecclesia 24_06_2016
Louis Raahael Sako, patriarca della Chiesa caldea dell'Iraq

Quando centinaia di migliaia di persone sono costrette dai tagliagole a scappare da un giorno all'altro dalle loro case, non ci vuole una grande fantasia per capire che i bisogni sono immensi. E se poi - passati due anni - quelle stesse persone sono ancora accampate alla meglio nei sobborghi di una grande città del Kurditsan (e hanno anche imparato sulla loro pelle che tra le dichiarazioni sui successi dell'«offensiva contro l'Isis» e il loro ritorno a Mosul di strada ne corre parecchia) a tutto penseremmo tranne che a dibattiti sulle strategie pastorali. 

Invece, in questi giorni la Chiesa caldea - la Chiesa ormai esule nel suo stesso Iraq - ci ha sorpreso ancora una volta, non solo con la sua fede profonda, ma anche con una lezione interessante di vita per ogni comunità cristiana. Su iniziativa del patriarca Luis Raphael Sako, infatti, tutti i sacerdoti caldei rimasti in Iraq si sono riuniti per un incontro di due giorni ad Ankawa, il sobborgo cristiano di Erbil divenuto la sede patriarcale di fatto di una Chiesa che non può stare lontano dal suo gregge nel momento della prova. Nel loro Paese proprio in queste settimane l'offensiva su Falluja - con le sue contraddizioni fra esercito e milizie sciite - sta provocando altrove nuove migliaia di profughi, alcuni costretti a scappare addirittura a nuoto nell'Eufrate per evitare di diventare scudi umani dell'Isis. 

Eppure, il braccio di ferro a Baghdad tra gruppi politici più fedeli a interessi personali e appetiti di potenze straniere che al bene del Paese resta in tutta la gravità emersa appena qualche settimana fa con l'assalto al Parlamento dei fedelissimi del religioso sciita Moqtada al Sadr. Davvero si fa fatica a vedere prospettive per questo Iraq, da tanti anni ormai sfigurato dall'avventurismo di chi pensava di partire da qui per disegnare il «nuovo ordine mondiale».

Ecco: in mezzo a tutto questo scenario tragico la Chiesa caldea che cosa decide? Che è del tutto inutile continuare a sgolarsi nell'invocare aiuto da una comunità internazionale che non ha più voglia di assumersi le proprie responsabilità. Così i caldei ripartono dai loro preti. O meglio: da quelli che anche nella tempesta si sono dimostrati fedeli, restando accanto al loro gregge anziché cercare una salvezza individuale nelle ricche e sicure comunità della diaspora (come hanno fatto invece altri religiosi, al centro da tempo di un dolorosissimo scontro tra il patriarca Sako e il vescovo della diocesi caldea degli Stati Uniti, che scelleratamente ha aperto loro le porte senza curarsi delle ulteriori sofferenze che così infliggeva a chi è rimasto in Iraq).

Due giorni di incontro tra il patriarca, i vescovi e tutti i sacerdoti dell'Iraq, dunque. Non tanto per consolarsi a vicenda in una situazione travagliata; piuttosto per guardarsi in faccia a dirsi che è nella tribolazione che cresce davvero una Chiesa. Perché anche nella due giorni di Ankawa non ha fatto sconti Sako al suo clero: nel suo intervento ha preso in prestito un'espressione molto politica – “road map” - per tracciare la strada che ogni prete nell'Iraq esule di oggi è chiamato a percorrere. E il primo passo è consacrarsi davvero a Cristo: «State attenti a non ritrovarvi con il cuore vuoto», ha ammonito il patriarca. «Lasciatevi guidare da questa frase che riassume tutta la spiritualità di un sacerdote: “Sulla terra non c'è niente di più prezioso a Dio di un monaco in ginocchio, che prega senza sosta”».

Lo ha detto a sacerdoti che passano le loro giornate sotto le tende con le loro comunità, chiamati a mantenere alta la vita sacramentale anche nell'esilio (commoventi le immagini delle Prime comunioni celebrate coi bambini nei campi profughi) e infondere quelle parole di speranza contro ogni evidenza umana che sono l'unica possibilità oggi di mantenere in vita la Chiesa caldea in Iraq. Per farlo, però, bisogna soprattutto avere il coraggio di guardare comunque avanti. Tra le cose più sorprendenti dell'assemblea dei preti caldei è che hanno parlato anche di novità audaci; uno dei temi più dibattuti - ad esempio - è stata la questione del sostentamento del clero. 

Con tutti i problemi che ci sono tra i profughi può sembrare una piccola rivendicazione sindacale, ma invece non lo è affatto. Proprio la condizione in cui molti non hanno letteralmente nulla da donare sta facendo capire che il meccanismo per cui un sacerdote mantiene sé e la sua famiglia chiedendo un'offerta in cambio dei sacramenti (come avviene normalmente nelle comunità caldee) non è un volto autentico di Chiesa. Perché i sacramenti sono grazia per tutti e non possono rischiare di diventare merce di scambio. Lo stesso patriarca Sako, poi, ha sollevato il tema della liturgia, esprimendosi a favore di una riforma dei riti (tuttora fermi ai testi del settimo/ottavo secolo nella Chiesa caldea). È proprio in questa situazione precaria - ha detto - che capiamo quanto sia essenziale per la gente comprendere ciò che celebra e farlo diventare alimento per la vita di tutti i giorni.

Alla fine dei due giorni si sono lasciati con una promessa: tenere ogni anno insieme un ritiro spirituale comune per tutto il clero dell'Iraq. Il primo lo hanno già fissato per settembre; sarà dedicato al prete come «portatore della Divina misericordia». Nel suo deserto cammina la Chiesa dei caldei. Ed è proprio questo camminare ad alimentare la certezza di ritrovare un giorno la propria terra promessa.