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Sacerdozio femminile: perché c’entra Maria

Per il laicismo il "rifiuto” del sacerdozio alle donne sarebbe un sopruso maschilista. Ma una tale interpretazione non tiene conto che nella Chiesa uomini e donne hanno avuto dall'origine ruoli diversi e tutti fecondi. A partire dal compito affidato a Maria, speciale e unico.

Editoriali 23_02_2013
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C’è un dito puntato ormai da parecchio tempo contro la Chiesa, da fuori ma anche talvolta dal suo stesso interno. Un cavallo di battaglia del laicismo che però non sembra dispiacere anche ad alcuni cattolici ed è la denuncia di quella che sarebbe una gravissima ingiustizia e cioè il "rifiuto” del sacerdozio alle donne. Si tratta di una “rivendicazione” che è nata e che si è sviluppata nell’ottica del femminismo dal quale attinge le categorie interpretative. Cioè da quell’ottica dei diritti e delle pari opportunità tra uomo e donna che, se può essere utile nella società civile, non si dimostra invece idonea nell’ambito di una realtà quale è la Chiesa. Ma vediamo un po’ di spiegare il perché e al contempo di dimostrare come mai, anche in questo caso, il riferimento a Maria diventi decisivo.

Sappiamo bene come il fatto di riservare il sacerdozio ministeriale ai soli uomini non sia una scelta che la Chiesa ha fatto in proprio – come, per esempio, quella del celibato ecclesiastico – ma sia piuttosto il frutto di un atto di “obbedienza” che essa ha compiuto e continua a compiere nei confronti della volontà del suo fondatore. Cioè di quel Gesù che per il ministero apostolico ha scelto chiaramente non qualche uomo e qualche donna, bensì dodici uomini. Una prassi che non è certo possibile attribuire alle cultura maschilista dell’epoca, dal momento che Gesù ha chiaramente dimostrato di saperla ribaltare, quando necessario. E che dunque non può che risalire ad una sua precisa volontà. D’altra parte, il sacerdote, quando celebra i sacramenti, ha proprio il compito, che non è un potere ma un servizio, di essere un alter Christus, cioè di riprodurre nella sua efficacia ciò che Gesù fece. Gesù nella sua interezza di uomo e dunque anche nella sua maschilità.

Che tuttavia non si tratti di una ingiustizia, quanto piuttosto di una divisione di ruoli tra uomo e donna, che non solo non intacca la loro dignità ma anzi ne mette in luce la reciproca fecondità, è proprio Maria. Quando infatti guardiamo agli eventi che hanno presieduto alla incarnazione del Verbo di Dio nella persona di Gesù, cioè all’evento più straordinario che la storia umana registri, ci accorgiamo che mentre Dio non ha voluto aver bisogno di un seme maschile per compiere il suo piano, ha invece considerato necessario il passaggio attraverso un utero femminile, un utero evidentemente non solo considerato nel suo aspetto fisico ma in tutto quello che ciò comporta a livello di persona. Ha cioè chiesto a una donna, non ad un uomo, quella libera adesione al suo progetto che egli riteneva indispensabile.

Ha scritto al proposito il cardinal Biffi: «Tutto ciò obbedisce a un disegno non mondano ma trascendente che non insegue il mito di una uguaglianza astratta e indifferenziata, ma vuole esaltare le singole apprezzabili diversità, armonizzandone i valori rispettivi nell’ambito di un’unica multiforme comunione vivente. Colui che ha chiamato una donna (e non un uomo) a essere la creatura più bella, a collaborare nel modo più decisivo e ampio all’opera della redenzione e a essere l’immagine, l’anticipazione, la madre dell’intera realtà ecclesiale, ha riservato agli uomini (e non alle donne) il ministero apostolico».

Aggiunge von Balthasar che il ministero di Pietro è, in realtà, una pura e semplice funzione provvisoria all’interno di una Chiesa che, in Maria, quale madre del corpo mistico, femminilmente lo abbraccia. E che, con la concessione di un sacerdozio alla donna, questa verrebbe a «rinunciare a un di più per un di meno». E questo perché Maria non rivendica per sé potestà apostoliche ma è la “Regina degli Apostoli”.  Ella, dunque, «ha già altro e di più».