S. Maria in Silvis, chiesa-fortezza voluta dai longobardi
L’abbazia di Santa Maria in Silvis è una delle otto chiese giubilari della diocesi di Concordia-Pordenone. A tre nobili fratelli longobardi si deve, nel 735, la posa della prima pietra. Il manufatto più prezioso è, senz’altro, l’urna di Sant’Anastasia. Fra i suoi affreschi, una delle più belle rappresentazioni trecentesche della morte.
L’abbazia di Santa Maria in Silvis, in quel di Sesto al Reghena, è una delle otto chiese giubilari della diocesi di Concordia-Pordenone. La sua storia, antichissima, ebbe inizio nella prima metà dell’VIII secolo, quando la comunità benedettina divenne il cuore del piccolo borgo sorto, negli ultimi tempi dell’impero romano, all’altezza della VI pietra miliare dalla fiorente colonia Julia Concordia Sagittaria.
A tre nobili fratelli longobardi si deve, nel 735, la posa della prima pietra: Anto, Erfo e Marco, avevano deciso, infatti, di utilizzare tutti i loro averi e le proprie ricchezze per la costruzione del monastero. L’abbazia fu destinata, fin da subito, ad acquisire negli anni un potere sempre più forte che neanche la distruzione per mano ungara, nel 899, riuscì a vanificare. Piuttosto, l’invasione straniera fu occasione di rinascita per l’intero complesso, in quella circostanza fortificato, come ancora oggi si può ammirare.
Delle sette torri inserite nella cortina muraria difensiva resta solo quella d‘ingresso, detta “del ponte levatoio”, o Grimani dal nome degli abati che la restaurarono nelle forme attuali. Oltrepassandola, il fedele è accolto in un ampio cortile su cui si affacciano gli edifici principali, ovvero l’antica cancelleria, la residenza abbaziale, divenuta poi sede comunale, e la vecchia torre di vedetta, trasformata in campanile.
Sopra il semplice portale del prospetto principale della basilica si affacciano, affrescate, le figure di San Benedetto e dell’Arcangelo Gabriele, risalenti al secolo XI. Per raggiungere lo spazio sacro occorre attraversare un vestibolo sulle pareti del quale si raffrontano le icastiche immagini di Paradiso e Inferno, entrambe ricche di particolari realistici, attribuite al pittore Antonio da Firenze, attivo a metà del XV secolo. L’episodio dell’incontro tra i tre vivi e i tre morti, una delle più belle rappresentazioni trecentesche della morte, è ciò che resta della decorazione a fresco dell’atrio romanico, diviso in tre navate da pilastri quadrangolari, che conduce fino alla chiesa.
Quest’ultima, a tre navate, cripta e presbiterio sopraelevato, conserva i suoi originali connotati romanici ed è tutta affrescata da pittori di scuola giottesca. Si riconoscono, infatti, i tratti peculiari della poetica del genio fiorentino: l’attenzione alla resa dello spazio e del volume, le larghe campiture di colore, i tipici volti dagli occhi allungati. La decorazione dell’abside, della navata centrale e di parte del transetto è assegnata al cosiddetto Maestro del Lignum Vitae, dall’omonimo affresco sulla parete destra del presbiterio, ispirato a San Bonaventura. La stessa parete è ricca, inoltre, di episodi della vita di San Pietro. Le Storie di San Benedetto, che occupano il lato opposto del transetto, sono assegnate ad un’altra mano, dai modi più drammatici, artefice anche delle pitture del tiburio.
La cripta, scandita da volte a crociera poggianti su colonnine marmoree, custodisce altri tesori: sugli altari delle due absidi si trovano un’Annunciazione in marmo, datata tra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento, ed una splendida Vesperbild, ovvero una Pietà in pietra arenaria, di chiara ascendenza nordica.
Il manufatto più prezioso è, senz’altro, l’urna di Sant’Anastasia, in marmo bianco purissimo di origine greca, decorata a rilievi realizzati con un’accuratissima tecnica, presumibilmente nell’VIII secolo.