Rupnik espulso dai Gesuiti. E loro provano a discolparsi
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Marko Ivan Rupnik è ormai definitivamente dimesso dalla Compania di Gesù. Ma le giustificazioni dei Gesuiti fanno acqua e sulla riduzione allo stato laicale del prete "artistar" scaricano la patata bollente sulla Santa Sede.
L’unica cosa chiara e netta della vicenda che riguarda Marko Ivan Rupnik è la sua ormai definitiva dimissione dalla Compagnia di Gesù. L’ex-gesuita ha scelto di non presentare alcun ricorso al decreto di dimissione che gli era stato recapitato il 14 giugno scorso, entro il limite consentito dal Diritto canonico di trenta giorni. E così, il Delegato per le Case e Opere Internazionali Romane della Compagnia di Gesù (DIR), p. Johan Verschueren, ha potuto finalmente dichiarare, nella Lettera aperta del 24 luglio, che «secondo le nuove norme canoniche a riguardo», Rupnik «non è più religioso gesuita».
Verschueren offre la sua versione dei fatti, scegliendo la melodia monotonale della difesa della povera Compagnia di Gesù. Per la serie: noi ce l’abbiamo messa tutta, ma Rupnik è testardo e non ci ha lasciato alternativa. Il gesuita infatti prima spiega che la Compagnia non ha voluto intraprendere prima la strada della dimissione dall’Ordine per vincolare Rupnik «alle sue responsabilità di fronte a così numerose accuse, invitandolo a intraprendere un percorso di verità e di confronto con il male denunciato da tante persone che si sono sentite ferite». Ma di fronte alla sua «insistente e pervicace incapacità di confrontarsi con la voce di tante persone che si sono sentite ferite (…) ci siamo trovati nella necessità di dimetterlo dalla Compagnia».
Per quanto riguarda la dimissione dallo stato clericale, Verschueren persevera nella strategia di salvare il buon nome ‒ quel che è rimasto ‒ dei gesuiti: «Non è di per sé competenza della Compagnia di Gesù, ma della Santa Sede. Ho sempre desiderato come Superiore Maggiore, nelle diverse circostanze di queste lunghe e complesse vicende, poter avviare un processo che potesse garantire l’accertamento giudiziale dei fatti, il diritto alla difesa e le pene sanzionatorie conseguenti (o la possibile assoluzione), ma diversi motivi, tra cui gli attuali limiti delle normative relative a situazioni simili, non lo hanno permesso». Sempre per la serie: noi ce l’abbiamo messa tutta, ma il fato ci è stato avverso; «ché ai miseri mortali tal sorte largirono i Numi» (Iliade, XXIV, 523).
P. Verschueren non spiega né quali siano gli attuali limiti delle normative canoniche, né quali siano gli altri motivi. Aspetti che forse potevano risultare un tantino utili per chiarire la vicenda, ma che evidentemente non erano tagliati a misura della linea di difesa ad oltranza dell’Ordine. Ma non aveva scritto che «quando la dimissione dalla Compagnia di p. Marko Rupnik diventasse definitiva, sarà possibile approfondire i temi». E questo che approfondimento sarebbe?
Il gesuita reindirizza le responsabilità Oltretevere, guardandosi dal fare nomi o cognomi, ma prendendosela con la “normativa”, e… caso risolto. Nessun franco confronto pubblico: troppo rischioso. Affida invece ai suoi giornalisti preferiti – Nicole Winfield per Associated Press e Iacopo Scaramuzzi per Repubblica, ‒ un tentativo di argomentazione. AP ‒ lo ricorderete ‒ è stata quella che ha pianificato l’intervista nella quale papa Francesco aveva detto di non sapere nulla della vicenda legata a Rupnik; Scaramuzzi è “l’amicone” di p. Spadaro, che è “l’amicone” di Francesco. Insomma, massima trasparenza.
La prima spiega che si tratterebbe del fatto che «all’epoca dei presunti abusi di Rupnik, il Vaticano di solito non puniva la cattiva condotta sessuale o di altro tipo tra sacerdoti e donne adulte, considerando tali relazioni consensuali». Le migliorie apportate più di recente nella legislazione ecclesiastica «non possono essere applicate retroattivamente, e il Vaticano generalmente odia fare eccezioni per punire vecchie cattive condotte che coinvolgono gli adulti». Qualcuno dovrebbe spiegare perché in realtà, in questo pontificato, vengano dimessi numerosi sacerdoti con approvazione in forma specifica da parte del Papa, con accuse meno numerose e meno gravi di quelle imputate all’ex-gesuita e senza che nemmeno gli venga data la possibilità di difendersi, mentre invece nel caso di Rupnik ci sarebbe un problema di legislazione canonica.
E la verità è molto semplice: è papa Francesco ad aver garantito a Rupnik che non avrebbe mai firmato nulla contro di lui. Ragione per cui Rupnik ha sempre tenuto un comportamento spocchioso, ha fatto di tutto per farsi cacciare dall’ordine, togliendosi così dai piedi anche quelle scomode ‒ ma puramente formali ‒ restrizioni che gli provenivano dai suoi superiori. Esattamente come è stato papa Francesco ad aver firmato la rimozione lampo della scomunica e ad aver voluto che i delitti precedenti fossero lasciati cadere in prescrizione.
E questo nonostante l’articolo di Scaramuzzi cerchi di raccontare la fiaba incantata che tutti i gesuiti, sia quelli vestiti di nero (o in borghese) sia quello vestito di bianco, abbiano agito con trasparenza e responsabilità. L’amico di Spadaro prima riesce ad addossare la responsabilità della rimozione della scomunica alla Congregazione per la Dottrina della Fede, senza minimamente chiamare in causa il Papa. Poi suona la stessa musica per gli abusi commessi negli anni Novanta: la Compagnia di Gesù avrebbe raccomandato «alla Dottrina della fede di svolgere un processo penale, derogando ai termini di prescrizione, ma il dicastero vaticano, guidato all’epoca da un altro gesuita, il cardinale Luis Ladaria, a ottobre del 2022 ha deciso di non procedere, salvandolo per la seconda volta».
È il cardinal Ladaria la vittima designata su cui scaricare tutta la responsabilità del caso Rupnik. Il Papa non ne sapeva nulla, mentre le azioni risolute dei gesuiti sarebbero state vanificate dal confratello ex-Prefetto. Verosimile come Biancaneve e i Sette Nani.
La Compagnia di Gesù sarebbe oltretutto stata esemplare nel fare quel che poteva, ossia contenere Rupnik con misure restrittive. Peccato che queste misure non fossero pubbliche, così che l’ex-gesuita poteva continuava a fare quel che voleva, senza che alcuno lo disturbasse. È lo stesso Scaramuzzi a confermarlo, proprio mentre cerca di mostrare la trasparenza dei vertici della Compagnia di Gesù. Nell’autunno 2022, quando Ladaria (sic!) avrebbe deciso di non derogare alla prescrizione, p. Verschueren, «ha fatto affiggere nelle bacheche dell’ordine religioso una nota che rendeva noto, per la prima volta pubblicamente, che il gesuita era soggetto a restrizioni».
Chiaro? Fino all’ottobre 2022 praticamente nessuno sapeva delle restrizioni che pendevano su Rupnik, il quale era dunque sostanzialmente libero di muoversi come voleva. E infatti lo faceva. Ora, imporre restrizioni segrete e che nessuno controlla, significa solo una cosa: mostrare di aver fatto formalmente qualcosa, ma in concreto lasciare che le cose continuino ad andare nello stesso modo. Bisognerà attendere la venuta di un Clemente XV per risolvere la questione alla radice?