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Robert Bork o dell'irriducibile fedeltà al vero

È morto nei giorni scorsi il giudice che nel 1987 non fu nominato alla Corte Suprema per via delle sue posizioni a favore della vita. Non smise mai di cercare la verità. L'eredità culturale che lascia merita di essere conosciuta e raccolta.

Vita e bioetica 03_01_2013

Robert Bork è morto il 19 dicembre all’età di 85 anni ad Arlington, in Virginia, ma alla memoria di chi ha amore per la verità non mancherà mai.
Robert Heron Bork era nato il 1° marzo 1927 a Pittsburgh, in Pennsylvania, è stato giudice combattivo ed eminente giusperito, e i suoi nemici lo hanno odiato al punto di coniare per lui un neologismo, il verbo “to be borked”, ovvero vedersi precludere incarichi di prestigio per via mediatico-democratica. Candidato a diventare giudice della Corte Suprema, Bork fu infatti travolto dall’uragano di contumelie scatenatogli addosso dalla magistratura politicizzata a sinistra, dalla Sinistra politica e della stampa “progresssita” e “illuminata”. Per carità, avvenne tutto secondo le regole democratiche, ma è proprio in casi come questi che le regole da sole mostrano di non essere affatto sufficienti e la democrazia senza orientamenti morali sbanda.

Bork aveva infatti un grande, enorme difetto. Credeva in maniera tetragona nel diritto alla vita, nella famiglia monogamica eterosessuale e nella Bibbia piuttosto che a Charles Darwin, e non perdeva occasione per dirlo; ovvero, da uomo di legge e di cultura qual era, per mettere in guardia gli americani dai guasti che il relativismo sempre più imperante produce. Orbene, tutto ciò negli Stati Uniti fa di una persona sia un conservatore sia il bersaglio preferito dei cosiddetti liberal.

Tutto iniziò il 1° luglio 1987, quando l’allora presidente Ronald Reagan annunciò la decisione di proporre Bork alla suprema magistratura giuridica del Paese. All’epoca Bork era (sempre per nomina reaganiana) giudice della Corte d’Appello del Distretto di Columbia, dopo essere stato a lungo e onoratamente docente di Diritto nell’Università Yale, specializzato in norme antitrust, e avere avuto come studenti una pletora di nomi famosi, fra cui Bill e Hillary Clinton.
Reagan aveva però già commesso due “delitti” imperdonabili agli occhi dei liberal: nel 1986 aveva proposto William Rehnquist come presidente della Corte Suprema e il giudice Antonin Scalia come nuovo membro della stessa assise. Rehnquist era colui che nel 1973 aveva firmato il parere di minoranza contro la sentenza che, a chiusura del famoso, e famigerato, e basato su una frottola, caso “Roe v. Wade”, ribaltò improvvisamente, con un vero e proprio colpo di mano, le leggi a favore della vita umana nascente allora vigenti in numerosi Stati dell’Unione americana legalizzando l’aborto ovunque. Scalia era un altro noto campione del conservatorismo culturale e sociale, e per di più un cattolico integerrimo. Per la Commissione sulla Giustizia del Senato federale di Washington, l’organismo incaricato di vagliare le qualità professionali dei giudici indicati dalla Casa Bianca, permettere a Reagan d’inserire in quella formidabile squadra pure Bork fu troppo. E l’inferno si scatenò.

Fu Ted Kennedy ad appiccare il fuoco. Erano infatti trascorsi solo una manciata di minuti dall’annuncio della decisione di Reagan che il senatore Democratico del Massachussetts Ted Kennedy pronunciò un discorso inverecondo e strabiliante in cui affermò che con Bork alla Corte Suprema le donne statunitensi sarebbero state costrette ad abortire clandestinamente nei vicoli bui, che per le persone di colore si sarebbe riaperta la stagione della segregazione razziale, che i cittadini avrebbero dovuto guardarsi le spalle dagli agenti della “gendarmeria morale” e che tutti quanti avrebbero dovuto combattere quotidianamente contro una pervicace censura del “libero pensiero” degna di uno Stato totalitario.

Il discorso di Kennedy suonò la sveglia, e tanto i media quanto gli avversari politici di Bork scesero immediatamente in campo. La Commissione Giustizia del Senato fu subito lo strumento opportuno per fare la guerra a Bork, ma soprattutto a ciò che Bork (come Reagan) rappresentava in termini culturali e giuridici. La lotta fu senza quartiere e senza precedenti. Già non si poteva tollerare che qualcuno nutrisse la fede nei “princìpi non negoziabili” che animava graniticamente Bork, ma che poi questo qualcuno diventasse pure membro dell’organismo preposto a vegliare sulla costituzionalità delle leggi americane, e per giunta con la benedizione palese di un presidente “reazionario” e connivente, era, per un certo mondo, inconcepibile.

La maggioranza dei componenti di quella Commissione Giustizia erano del resto Democratici, esponenti tra l’altro dell’ala più liberal del partito, e il loro capo era nientemeno che il senatore del Delaware Joe Biden, l’attuale vicepresidente che siede accanto a Barack Obama. Dopo avere bocciato Bork, la “sua” Commissione Giustizia cercò pure di far fuori il giudice Clarence Thomas, conservatore, nero e cattolico, proposto alla Corte Suprema nel 1991 dal presidente George W.H. Bush padre. “Cattolico” Biden (mi si perdoneranno le virogolette), e “cattolico” anche il piromane Kennedy. Alla fine Bork soccombette. Quando? Il giorno in cui saltò finalmente fuori, davanti a tutti, in sede istituzionale, quindi subito in pubblico, che il giudice Bork riteneva che la Costituzione federale degli Stati Uniti d’America non prevedesse affatto, né nella lettera né nello spirito, quel fantomatico “diritto alla privacy” mediante il quale la Corte Suprema aveva nel 1973 legalizzato l’aborto e attraverso il quale pure da più parti si è cercato dopo, e si cerca ancora oggi, di legalizzare l’eutanasia in America. Ciò è bastato a fare di Bork, in pratica letteralmente, uno spostato.

La conversione. Bork era stata allevato dai genitori nella fede protestante, per l’esattezza presbiteriana. Poi aveva attraversato una lunga stagione d’indifferentismo. Alla fine, il 21 luglio 2003, venne battezzato nella Chiesa Cattolica. Gli strumenti principali di questa sua conversione (sofferta e difficile) sono stati soprattutto due. Anzitutto don C. John McCloskey III, sacerdote della prelatura dell’Opus Dei, l’uomo che sembra avere fatto della conversione al cattolicesimo dei conservatori protestanti o agnostici la propria missione di vita. Poi Mary Ellen Pohl, sua moglie.

Robert ed Ellen si sposarono nel 1982. A leggere certe biografie, succinte come degli sms e pertanto pericolosissime, si rimane sconvolti. Robert – si apprende – contrasse ben due matrimoni, e la seconda volta con una ex suora. Solo che il giudice Bork era rimasto vedovo due anni prima e Mary Ellen, suora del Sacro Cuore per quindici anni, pronunciava voti rinnovabili periodicamente.
Fu lei che, da moglie, cominciò a portare ogni domenica a Messa quel marito dapprima assai riluttante. Dio poi, come sempre, fece tutto il resto. A quel punto, come simpaticamente diceva don Richard John Neuhaus (un altro convertito dal protestantesimo al cattolicesimo), gli angeli poterono riposarsi dalle insistenze di Mary Ellen.

Del resto, quando nel 1996 Bork pubblicò il libro Slouching Toward Gomorrah: Modern Liberalism and America Decline (ReganBooks, New York) la sua conversione culturale al cattolicesimo era già perfettamente compiuta. Mancava “solo” il sacramento del battesimo, che a tempo debito sarebbe giunto puntuale. Decisivo per la maturazione di Borkè stata del resto la lettura di The Beliefs of Catholics (1927), del sacerdote inglese Ronald Knox, consigliatogli da don McCloskey. Knox fu per Bork un faro illuminante. Come sarebbe stato in seguito lo stesso Bork (ma lui non lo sospettava affatto), Knox fu uno dei grandi convertiti anglofoni dal protestantesimo (nel suo caso l’anglicanesimo) al cattolicesimo.

Il modo migliore per onorare un “martire bianco” della verità delle cose come il giudice Bork è ora non dissiparne l’eredità culturale, affidata a diversi libri, talora grossi così, e a saggi intramontabili, di cui almeno uno tradotto in italiano, Il giudice sovano. Coercing Virtue (a cura di Serena Sileoni, Liberilibri, Macerata 2006)
Bork (e come lui Rehnquist, Thomas, Scalia, e dal canto proprio anche Reagan) era convinto che la Costituzione degli Stati Uniti non fosse un documento destinato alla continua libera interpretazione, ma un grande pro memoria di faccende istituzionali assai concrete la cui ragion d’essere sta in princìpi sempiterni e intangibili che stanno a monte di ogni documento di legge positiva. In America li chiamano “originalisti”, e sono tra i pochi in grado di offrire un’alternativa vera alla decadenza.