Rivolte contadine nel ventre della Cina
Cina, condannato Lin Zuluan, ex capo del villaggio di Wukan. La sua ribellione è un caso esemplare. Per mesi, nel 2011, il villaggio di Wukan resistette all'assedio delle autorità comuniste, protestando contro l'esproprio delle terre. La questione è scoppiata di nuovo perché lo Stato non ha mantenuto i patti raggiunti cinque anni fa. E' solo uno dei numerosissimi esempi di rivolte contadine in una Cina solo apparentemente stabile...
Cina, il tribunale di Foshan (Guangdong), ha condannato a 37 mesi di carcere e 200mila yuan di multa Lin Zuluan, ex capo del villaggio di Wukan, giudicato colpevole di corruzione. Sembrerebbe un processo fra i tanti, nella Cina comunista. In realtà si tratta di un episodio che ha tenuto col fiato sospeso il paese più popoloso del mondo, che ha interessato direttamente la sua classe dirigente a livello nazionale. E soprattutto: è il sintomo di un fenomeno immenso, quello delle rivolte contadine.
Il caso di Wukan è scoppiato nel settembre del 2011. Cinquemila persone si riversarono per le strade della cittadina, nella ricca provincia meridionale del Guangdong, per protestare contro la “mancanza di democrazia” in Cina. Avevano spezzato un dogma fondamentale del regime, accusando il Partito di essere una “dittatura”, protestando contro le requisizioni arbitrarie delle terre e contro brogli nelle elezioni locali di quell’anno. Un documento contro i sequestri dei terreni era stato firmato da 4500 cittadini e contadini locali. Gli espropri, senza compensazioni, avevano riguardato almeno 12mila residenti. Ad una prima proposta di negoziato da parte di Pechino, i ribelli di Wukan avevano risposto negativamente, affermando che ormai il dialogo non fosse più sufficiente e chiedendo giustizia per gli espropriati. Il 10 dicembre 2011, le autorità avevano reagito con la forza, bloccando i viveri e cercando di prendere la popolazione per fame. Si poteva entrare e uscire dal villaggio, ma era vietato portare cibo. Uno dei leader della protesta, Xue Jinbo, era stato arrestato ed era morto durante l’interrogatorio di polizia. Nonostante la stretta censura imposta sulla vicenda, le notizie del “villaggio democratico” avevano fatto il giro del mondo. Dopo due settimane di assedio, il governo locale riconobbe la legalità della Commissione di gestione eletta dai residenti, rimosse i leader comunisti eletti con i brogli e promise una nuova inchiesta sulla morte di Xue Jinbo. Wukan pareva aver vinto la sua battaglia contro il regime.
In realtà la vittoria fu solo di facciata, perché, a cinque anni dall’accordo, le terre non sono tornate ai loro “proprietari”. L’artefice dell’accordo era Lin Zuluan, l’uomo condannato tre giorni fa. Allora, nel 2011, aveva definito il compromesso con le autorità “quasi ideale”, perché soddisfaceva tutte le richieste fondamentali della comunità di Wukan. Cinque anni dopo, il giugno scorso, denunciava apertamente l’immobilismo delle autorità. Avrebbe dovuto tenere un comizio il 19 giugno, per richiamare la gente in piazza, ma il giorno prima è stato arrestato con l’accusa di corruzione. La polizia ha avvertito gli abitanti che ogni “manifestazione di teppismo” sarebbe stata accolta col “pugno di ferro”. Nonostante gli avvertimenti, i cittadini sono ugualmente scesi in piazza per chiedere la liberazione del leader della protesta. La tensione è rimasta alta per tutta l’estate, durante il processo a Lin Zuluan. Il quale ha dovuto esibirsi in una “confessione” televisiva in cui si accusa di colpevolezza, ma al tempo stesso, dal carcere, aveva invitato i suoi cittadini a “fare quello che ritengono giusto”, con o senza il consenso delle autorità.
Dopo che la condanna è stata spiccata, la popolazione di Wukan è scesa di nuovo in piazza. La polizia ha disperso la protesta usando proiettili di gomma e gas lacrimogeni, poi il villaggio è stato posto sotto il controllo dell’esercito. Dai posti di blocco può passare solo chi è residente. Secondo quanto riferisce l'agenzia Asia News, i residenti lamentano apertamente, sulla stampa cinese, una repressione dura e illegale. Secondo uno di essi: “La situazione dimostra che non esiste più la legalità. Usare gas lacrimogeni e proiettili di gomma contro civili disarmati? Ma il governo serve il popolo o se stesso?”. Fra i feriti vi sarebbe almeno una donna anziana, colpita da un agente “senza alcun motivo”.
Il caso di Wukan è noto al pubblico internazionale, ma è solo un sintomo di una malattia molto più grave. Le dispute terriere, soprattutto gli espropri forzati sono il problema sociale di maggior impatto nella Cina attuale e il 73% delle petizioni e proteste dei contadini riguardano la loro terra. Questi dati non sono stati elaborati da dissidenti o da centri studi non cinesi, ma dalla stessa Accademia cinese delle scienze sociali (Acsc), massimo organo consultivo statale, nel suo “Libro blu per la società cinese” del 2011. Lo stesso documento rilevava come il forte sviluppo urbano e industriale causasse un vertiginoso aumento dei costi di terreni per nuovi quartieri e zone industriali. Su queste terre, molto spesso, le autorità locali hanno operato espropri di massa a scopi speculativi. I contadini cacciati da terre e case non hanno ricevuto indennizzi adeguati per trovare una nuova abitazione e un nuovo lavoro. Dal 1990 le autorità hanno espropriato oltre 6,7 milioni di ettari di terra agricola. Nel novembre del 2010 Yu Jianrong dell’Acsc ha calcolato che questi terreni valevano circa 2mila miliardi di yuan (circa 225 miliardi di euro) più degli indennizzi pagati ai contadini.
Il fenomeno nasce da una riforma mai completata. Mao Zedong aveva collettivizzato completamente le terre, col risultato che negli anni ’50 la Cina visse la peggior carestia del mondo in tutto il Novecento (circa 30 milioni i morti di fame e stenti). Nei primi anni di governo di Deng Xiaoping, dal 1979 al 1984, lo Stato fece una parziale marcia indietro. Non restituì la terra ai proprietari (che erano stati quasi tutti uccisi nelle numerose repressioni di Mao), ma adottò la formula del “contratto di responsabilità”: la famiglia di agricoltori è responsabile pienamente della terra concessale dallo Stato, per un periodo di tempo che, da allora ad oggi, continua ad allungarsi. Inizialmente i contratti fra contadini e rappresentanti locali del Partito vennero stipulati informalmente a causa del vuoto di potere creato dalla Rivoluzione Culturale e poi dalla morte di Mao. Deng constatò che funzionava e non fece altro che formalizzarla. I risultati furono notevoli, da subito: de-collettivizzati, i contadini cinesi quadruplicarono di colpo la produzione agricola (dal 2,6% al 9%) solo nel primo periodo della riforma, dal 1979 al 1984. Lasciati liberi di aderire ancora alle comuni o mettersi in proprio, nei primi cinque anni di riforma il 90% dei contadini scelse di mettersi in proprio.
Il lato oscuro della riforma agricola cinese è dato dalla “tragedia dei beni comuni”: è molto facile abusare di un bene, sprecarlo o rovinarlo quando i diritti di proprietà non sono definiti. E la terra, in Cina, è un bene sul quale i diritti di proprietà non sono affatto definiti. Il risultato è che qualsiasi funzionario, quadro o dirigente locale del Pcc può sequestrare terre per costruirvi la sua attività, spacciata come “bene pubblico”, o direttamente ad uso privato. I contadini si affezionano in fretta alla proprietà appena riacquisita e ai sequestri oppongono sommosse sempre più numerose. Secondo il Ministero dell’Interno cinese, nel 2003 si erano verificate circa 20mila ribellioni contadine. Nel 2004 erano diventate 74mila. Nel 2005, 87mila. Negli anni successivi, le forze di sicurezza cinesi hanno dovuto far fronte a quasi 100mila ribellioni contadine all’anno. Nel 2010, gli “incidenti di massa” furono 180mila. Da allora il governo ha smesso di pubblicare le statistiche.
Considerando che si tratta di eventi di grandi dimensioni, come a Wukan dove sono coinvolti migliaia di residenti, dobbiamo dimenticare l’immagine stereotipata di una Cina “solida”, che si presenta all’ultimo G20 come guida economica del mondo nel prossimo secolo. La rivolta per le terre rivela la natura di un gigante dai piedi d’argilla.