Rivolta in Bangladesh potrebbe mutare gli equilibri in Asia
Dimissioni e fuga in India del primo ninistro Sheikh Hasina dopo settimane di violenti disordini con un bilancio di oltre 300 morti e migliaia di feriti. Governo temporaneamente in mano ai militari. I timori dell'India per la perdita di un governo amico.
I festeggiamenti hanno rapidamente preso il posto degli scontri con la polizia dopo le dimissioni e la fuga in India del primo ministro Sheikh Hasina, al culmine di settimane di manifestazioni di protesta contro il governo trasformatesi in una vera e propria rivolta. Oltre 300 morti, migliaia di feriti e 11mila arresti sono il bilancio degli scontri più gravi dall’indipendenza del Bangladesh nel 1971, iniziati lo scorso 5 giugno: ad accendere la miccia della protesta è stata la decisione della Corte Suprema che ha ristabilito il sistema delle quote negli impieghi statali, che il governo aveva cancellato nel 2018 in seguito ad altre proteste. Secondo questo sistema, nel 2018 si era arrivati ben al 56% dei lavori nello Stato (i più ambiti per sicurezza e livello di retribuzione) riservati ai discendenti di quanti hanno combattuto per l’indipendenza (50%), alle popolazioni tribali (5%) e ai disabili (1%).
Ma lo scorso 5 giugno l’Alta Corte aveva ribaltato quella decisione e ripristinato il 30% di lavori riservati ai familiari dei combattenti per l’indipendenza, scatenando la reazione anzitutto degli studenti, in un Paese che offre poche prospettive di lavoro e che risulta tra i primi dieci Stati più corrotti al mondo. Gli scontri si sono fatti ancora più duri nelle prime settimane di luglio, quando il governo di Sheikh Hasina ha deciso di usare la mano forte contro i manifestanti provocando oltre cento morti.
La decisione della Corte Suprema il 21 luglio di cancellare il rispristino delle quote, riducendole al 7% in totale (5% ai familiari dei combattenti, 1% ai tribali e 1% ai disabili) ha ridotto solo parzialmente le dimostrazioni che, anzi hanno ripreso ancora più numerose e violente con il chiaro obiettivo di rovesciare il governo, ritenuto responsabile delle morti delle settimane precedenti. E l’obiettivo è stato appunto raggiunto ieri.
Dopo la fuga in India di Sheikh Hasina (foto a sinistra), il controllo del Paese è stato assunto provvisoriamente dal capo di stato maggiore, il generale Waker-Uz-Zaman, che ha anche promesso di fare luce sulle responsabilità della repressione sanguinosa dei giorni scorsi (solo tra domenica e ieri sono morte oltre cento persone). Waker-Uz-Zaman cercherà nei prossimi giorni di trovare una soluzione per il governo, d’accordo con il presidente Mohammed Shahabuddin, che ha nel frattempo ordinato il rilascio dell’ex primo ministro Khaleda Zia. La leader del principale partito d’opposizione, il Bangladesh Nationalist Party (BNP), era in carcere dal 2018 per scontare una condanna a 17 anni per corruzione.
Khaleda Zia e Sheikh Hasina sono state le due protagoniste assolute della politica in Bangladesh negli ultimi 35 anni: Khaleda (78 anni) è stata la prima donna Primo Ministro in Bangladesh, nominata nel 1991, dopo l’assassinio di suo marito Ziaur Rahman, presidente del Bangladesh dal 1977 al 1981 e fondatore del BNP.
Sheikh Hasina (76 anni) è invece la figlia dell’«eroe» dell’indipendenza e primo presidente del Bangladesh, Sheikh Mujibur Rahman, ucciso nel 1975 insieme a gran parte della sua famiglia, in un colpo di stato militare. Alla strage sono scampate solo Sheikh Hasina e una sorella, in quel momento all’estero, e Hasina ha poi ereditato la leadership dell’Awami League, il partito fondato da suo padre.
Sheikh Hasina era al governo ininterrottamente dal 2009 e aveva anche vinto le elezioni dello scorso gennaio che però sono state boicottate dall’opposizione. Sebbene l’economia sia cresciuta considerevolmente in questi 15 anni di governo dell’Awami League e si calcoli che circa 20 milioni di bengalesi siano usciti dalla povertà estrema (la popolazione totale è di circa 170 milioni), a Sheikh Hasina si contesta la deriva anti-democratica, con tanto di repressione delle opposizioni, arresti arbitrari ed esecuzioni extra-giudiziali, oltre alla corruzione e ai brogli elettorali.
Accuse sempre respinte con sdegno dall’Awami League, che ha invece accusato il BNP e il Jamaat-e-Islami di aver provocato i disordini e curato la regia della rivolta. Al punto che il Jamaat-e-Islami, partito fondamentalista che persegue l’obiettivo di uno Stato islamico, e alleato del BNP, il 1° agosto è stato messo definitivamente fuori legge dal governo di Sheikh Hasina, decisione cancellata di fatto ora con le dimissioni del governo.
Proprio questo aspetto spiega la delicatezza della situazione anche sul piano internazionale. Il Bangladesh, e soprattutto l’Awami League, è molto legato all’India, che ha avuto un ruolo importante nella lotta per l’indipendenza del Bangladesh dal Pakistan, e c’è il timore che ci possa essere ora un cambiamento in senso islamista con una ricollocazione anche sul piano delle alleanze internazionali. Da questo punto di vista è poco rassicurante che ieri le dimissioni di Sheikh Hasina siano state “celebrate”, oltre che con l’assalto al palazzo del primo ministro, anche con la vandalizzazione e l’abbattimento delle statue di Sheikh Mujibur Rahman, il “padre della nazione”, come è definito nella Costituzione. Non solo: ieri a fare le spese dell’euforia dei manifestanti è stata anche la minoranza indù in Bangladesh con attacchi alle persone e ai templi.
L’India comunque per ora osserva l’evoluzione dei fatti senza commenti, per evitare accuse di interferenze e peggiorare la situazione.
Quanto sta accadendo in Bangladesh potrebbe avere ripercussioni anche in casa nostra perché i cittadini del Bangladesh rappresentano ormai il gruppo etnico più numeroso tra gli immigrati illegali: secondo i dati diffusi dal Ministero dell’Interno, nei primi sette mesi del 2024 sono arrivati 7.126 bengalesi irregolari su un totale di 33.103 (ben il 22%), quota in costante crescita negli ultimi anni. Basti pensare che solo quattro anni fa, nel 2020, i cittadini del Bangladesh rappresentavano appena il 7% dei richiedenti asilo (meno di 3mila persone). Paradossalmente proprio le migliorate condizioni economiche, insieme alle scarse prospettive in patria per i giovani, possono avere permesso di pagare il “passaggio” (che costa diverse migliaia di euro) alla ricerca di fortuna in Europa.
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