Ripudio islamico riconosciuto, dove porta il "caso Ancona"
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Una donna vuole separarsi dal marito che la picchia. Ma scopre che lui l'ha già ripudiata, in Bangladesh, paese d'origine di entrambi. E il Comune di Ancona aveva "annotato" il ripudio. Cosa dice la legge italiana.
Vuole il divorzio dal marito che la picchia. Avvia l’iter con gli avvocati i quali, nel cercare l’atto di matrimonio della coppia, scoprono nella scheda anagrafica della donna l’annotazione, con tanto di documentazione tradotta e certificata dall’ambasciata a Dhaka, che è stata ripudiata da oltre un anno davanti all’autorità bengalese.
Succede ad Ancona. Il protagonista è un operaio bengalese convinto che la moglie sia diventata «una sgualdrina (espressione edulcorata rispetto all’originale ndr). Prima era brava, adesso vuole camminare e vestire come i cristiani. A mia moglie piace andare in giro come te, con i capelli sciolti e senza velo. Ma la mia legge è altra cosa. Lei va in giro da sola, senza il mio consenso». È quello che ha riferito alla giornalista nel servizio mandato in onda da Fuori del Coro di Mario Giordano, il 2 ottobre. Rete 4 ha infatti riportato sotto i riflettori una storia che risale al giugno scorso.
La coppia ha due figli piccoli e negli ultimi anni i maltrattamenti dell’uomo s’erano fatti così prepotenti da indurre la donna a denunciare e chiedere la separazione giudiziale. È a quel punto, allora, che i legali, Andrea Nobili e Bernardo Becci, hanno scoperto che l’uomo, già nel 2013, era, infatti, riuscito a presentare un documento trasmesso dal Bangladesh con il quale aveva risolto da solo, alla maniera islamica, il matrimonio e il Comune l’aveva accolto. Nel documento si riporta l’accusa di adulterio e il non sottomettersi della moglie come ragioni per le quali ha provveduto al ripudio «preferendo vivere la sua vita senza prendersene cura».
Ripudio avvenuto secondo quella forma di separazione prevista dalla religione islamica e che solo l’uomo è titolato a fare: basta ripetere per tre volte, in lingua araba, «io divorzio da te», «ṭalaq, ṭalaq, ṭalaq», con un intervallo di almeno una ʿidda («il termine prescritto») tra una formula e l’altra, per aver un matrimonio annullato per legge. L’uomo attualmente è al suo secondo processo penale per maltrattamenti e lesioni. Nel primo ha avuto una condanna tre anni fa.
L’avvocato Andrea Nobili a Repubblica, lo scorso giugno, chiariva che il ripudio secondo il rito islamico non ha valore in Italia, «abbiamo predisposto un ricorso al tribunale di Ancona, sezione civile, per il riconoscimento dei diritti della signora e dei suoi figli minorenni evidenziando l’inesistenza, per il nostro ordinamento giuridico, di una sentenza islamica contraria a norme imperative di legge e ai diritti fondamentali». Con il ripudio, inoltre, secondo alcune declinazioni del diritto islamico, che differiscono però da Paese a Paese, l’uomo può interrompere il mantenimento della famiglia.
A lasciare esterrefatti, in questa vicenda, è certamente il fatto singolare che il Comune abbia registrato questa pratica senza batter ciglio. La shari’a - il diritto islamico non elaborato dagli uomini, ma imposto da Allah - sta facendo irruzione nei nostri comuni per creare precedenti capaci di modificare il nostro ordinamento?
Il dirigente dei servizi anagrafici, al quale il primo cittadino ha lasciato l’onere di dare una spiegazione, sostiene non ci sia «la possibilità di rifiutare un’annotazione perché contraria all’ordine pubblico italiano» e solo «se troverà una formula legittima per annullare l’annotazione del ripudio, lo farà».
Uno degli avvocati della donna sostiene, ancora, che, invece, il funzionario «aveva il dovere di rifiutare l’annotazione proprio perché viola il principio di ordine pubblico interno e internazionale. E va contro il principio di parità tra uomo e donna, dal momento che il ripudio è un atto unilaterale, affidato alla sola volontà maschile».
Infatti il Comune di Ancona ha preso atto che la signora era divorziata secondo il rito islamico, in violazione delle norme italiane ed internazionali, e ha lasciato che la trascrizione della cosa finisse nei registri di stato civile dell’Italia. «Noi come legali abbiamo però rivolto una domanda alla Corte di Appello, perché questa annotazione ci sembra un atto contrario allo stato di diritto: i matrimoni contratti col diritto islamico come fanno a essere riconosciuti? Il sindaco non ha responsabilità. Ma quanti sono nel nostro Paese i casi come questi? Il rito islamico prevede sottomissione, poligamia e ripudio: concetti da noi inammissibili. Rischiamo il relativismo giuridico, se non peggio», dicono gli avvocati al Corriere della Sera.
Nel frattempo, Daniele Silvetti, il sindaco di Forza Italia di Ancona, nel tentativo di ridimensionare la questione, sostiene come il Comune non abbia registrato, ma annotato, il ripudio. «Il Comune non ha il potere di discernere o rifiutarsi di annotarlo. Tocca al governo normare, ma intanto lo status della residente cambia».
A questo punto urge un chiarimento. In Italia, trascrizione, iscrizione e annotazione sono formalità che hanno lo scopo di dare pubblicità ad un atto. Si trascrivono atti che trasferiscono o costituiscono diritti reali di godimento, atti per causa di morte, atti amministrativi, domande giudiziali e giudiziari, atti esecutivi e cautelari. Si definisce, invece, “annotazione” l’attività di modifica dello stato personale di un soggetto per effetto di fatti o atti sopravvenuti nel tempo. La peculiarità è rappresentata dal fatto che il codice civile, all’articolo 453, statuisce che “nessuna annotazione può essere fatta sopra un atto nei registri se non è disposta per legge ovvero se non è ordinata dall’autorità giudiziaria”.
Gli atti da iscrivere, trascrivere ed annotare, quindi, devono essere solo ed esclusivamente quelli che la legge prevede e descrive, e anche il loro contenuto non può che esser quello che la legge prescrive in modo analitico. Ogni altra indicazione contenutistica è considerata estranea all’atto e quindi priva di valore.
Con la circolare del Ministero dell’Interno Miacel n. 2/2001 si stabilisce, poi, che per quel che concerne le convenzioni matrimoniali ricevute all’estero da stranieri residenti in Italia, “tali trascrizioni sono meramente riproduttive di atti riguardanti i predetti cittadini stranieri formati secondo la loro legge nazionale da autorità straniere. Dette trascrizioni, in quanto estranee all’ordinamento giuridico italiano, non possono mai contrastare con quest’ultimo, né con l’ordine pubblico e conseguentemente su tali trascrizioni “non si effettuano annotazioni, né delle stesse è possibile rilasciare estratti o certificati ma, eventualmente, solamente copia integrale al diretto interessato”.
Perché, dunque, procedere a questa annotazione? Si vuole, forse, caricare di una valenza enorme per il mondo islamico un atto che resta grave da qualsiasi punto di vista lo si guardi? O un atto di superficialità che però costa caro per le conseguenze che potrebbe avere?
Con un po’ di ritardo, ad ogni modo, l’Italia sembra quasi raggiungere i risultati del Regno Unito. Se nel 1982, a Leyton nella zona orientale di Londra, veniva costituito il primo Islamic Sharia Council (ISC) d’Inghilterra allo scopo di “risolvere i problemi matrimoniali dei musulmani che vivono in Gran Bretagna, prendendo come riferimento le leggi islamiche sulla famiglia”, è nel 2014 che sono state elaborate nuove linee guida per i notai e gli avvocati con l’obiettivo di mettere a punto documenti riconosciuti dai tribunali britannici ma che abbiano allo stesso tempo specifiche caratteristiche conformi ai dettami musulmani. L’iniziativa proveniva dalla gloriosa Law Society, l’associazione che rappresenta avvocati e notai in Inghilterra e Galles e, come denunciava ai tempi il Telegraph, «permetterà di redigere testamenti da cui vengano esclusi i non credenti, oppure che non riconoscano alle donne lo stesso diritto di eredità degli uomini o, ancora, che possano escludere i figli nati fuori dal matrimonio o adottati, formalizzare il talaq».
Stiamo creando anche in Italia, di fatto, uno Stato all’interno dello Stato?