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IMMIGRAZIONE

Rifugiati, i "corridoi umanitari" non sono una risposta

Il 12 gennaio la Cei, la Comunità di Sant’Egidio e il governo italiano hanno firmato un Protocollo di intesa per l’apertura di corridoi umanitari che permettano di portare in Italia centinaia di profughi eritrei, somali e sud sudanesi attualmente ospitati in alcuni campi profughi in Etiopia. Non è una soluzione razionale. Vediamo il perché.

Politica 17_01_2017
Campo di rifugiati in Etiopia

Il 12 gennaio la Conferenza episcopale italiana, la Comunità di Sant’Egidio e il governo italiano hanno firmato un Protocollo di intesa per l’apertura di corridoi umanitari che permettano di portare in Italia centinaia di profughi eritrei, somali e sud sudanesi attualmente ospitati in alcuni campi profughi in Etiopia. “Troppo spesso ci troviamo a piangere le vittime dei naufragi in mare – ha detto Monsignor Galantino, Segretario generale della Cei – questo Protocollo consentirà un ingresso legale e sicuro a donne, uomini e bambini che vivono da anni nei campi profughi etiopi”.

“Questo accordo per nuovi corridoi umanitari, che siamo felici di realizzare con la Cei, risponde al desiderio di molti italiani di salvare vite umane dai viaggi della disperazione – ha commentato il fondatore della Comunità di Sant’Egidio, Andrea Riccardi – si tratta di un progetto che offre a chi fugge dalle guerre non solo la dovuta accoglienza, ma anche un programma di integrazione. L’Europa, tentata dai muri come scorciatoia per risolvere i suoi problemi e troppe volte assente, guardi a questo modello di sinergia tra Stato e società civile replicabile anche in altri Paesi”. Marco Impagliazzo, presidente della Comunità di Sant’Egidio, ha aggiunto: “I corridoi umanitari non sono più in fase di sperimentazione, ma sono diventati un modello di difesa e di attenzione ai diritti umani e una modalità di risposta ad un fenomeno tipico del ventunesimo secolo come quello delle migrazioni”.

Si parla di 500 arrivi nei prossimi mesi. Bisognerà vedere se ci sono abbastanza rifugiati in Etiopia desiderosi di allontanarsi così tanto da casa e, soprattutto, disposti a fare una scelta di tale portata: perché un progetto, come ha spiegato Monsignor Galantino, di “integrazione e inclusione nella società italiana” trasforma l’espatrio per motivi di sicurezza da rimedio temporaneo in soluzione permanente, molto probabilmente definitiva, il che vuol dire separarsi per sempre dal resto della famiglia, lasciarsi alle spalle vita, progetti, volti e luoghi amati, e questo per ricominciare da zero in un altro continente e in paese – ma forse questo non lo sanno – che fa fatica a integrare dei nuovi arrivati data la situazione economica in cui si trova. 

Può darsi che accettino di venire in Italia gli eritrei che, per esserne usciti clandestinamente, rischiano sanzioni severissime se rientrano in patria e devono prepararsi a un servizio di leva lungo anni, se non a tempo indeterminato, ed è il motivo per cui molti lasciano il paese. Per quel che riguarda il Sud Sudan, il conflitto politico, ai vertici, iniziato nel 2013, si è sostanzialmente concluso, almeno per il momento. Il dramma è che in alcune regioni resta aperto uno scontro etnico con toni e modalità che fanno temere il rischio di pulizia etnica e genocidio. Tuttavia forse i profughi sud sudanesi preferirebbero essere aiutati a tornare in patria con programmi di insediamento, integrazione e inclusione nelle regioni sicure, concordati con il loro governo: il paese è grande, poco popolato e dotato di risorse minerarie straordinarie. A maggior ragione, un programma di rimpatrio potrebbe servire ai somali. Il loro paese non è in guerra, ma piuttosto è frammentato, con ampi territori controllati dai jihadisti al Shabaab che, per quanto indeboliti, riescono spesso a compiere attentati a luoghi frequentati dalla leadership politica nella capitale Mogadiscio. Da alcuni anni i somali hanno incominciato tornare a casa. L’Acnur nel 2015 ne ha rimpatriati 32.300. Ad attrarli contribuiscono le opportunità apertesi grazie agli enormi finanziamenti stranieri governativi, intergovernativi e privati destinati alla ricostruzione. 

Inoltre i rifugiati in Etiopia – circa 670.000 – sono già al sicuro, assistiti da agenzie Onu – oltre all’Acnur, Oms, Unicef, Ocha… – e da ong locali e internazionali. Nella prospettiva di un ritorno prima o poi a casa, come è loro speranza e diritto, servirebbe piuttosto un ulteriore impegno a migliorare le condizioni di vita nei campi: a beneficio di tutti e non solo di alcuni. Se poi i campi sono sovraffollati, come è probabile, allora una soluzione, pensando sia al benessere dei rifugiati sia alla loro preoccupazione di non allontanarsi da casa più del necessario, può essere trasferirne una parte a pochi chilometri di distanza, nel vicino Uganda. Lo scorso anno l’Acnur ha stabilito che l’Uganda, valutando le condizioni di vita offerte ai rifugiati, è il miglior paese al mondo in cui chiedere asilo.

Infine va detto, e deve essere ben chiaro, che, malgrado le assicurazioni di Monsignor Galantino e di Riccardi, questo corridoio umanitario, e gli altri che venissero aperti, possono salvare la vita a dei richiedenti asilo per qualche motivo costretti a spostarsi clandestinamente – ad esempio, perché non sono riusciti a raggiungere un centro o un campo Acnur – ma non servono, non possono valere per la quasi totalità delle persone che attraversano il Mediterraneo: che sono emigranti, non profughi. Sbaglia Impagliazzo se pensa che siano o debbano diventare la risposta al fenomeno delle migrazioni. Nel 2015 in Italia sono state accolte 3.555 richieste di asilo, ma sono sbarcate illegalmente 153.842 persone. Nel 2016 gli sbarchi sono stati 181.045. Nei primi dieci mesi dell’anno le richieste di asilo approvate sono state 4.067.