Riconoscere l'errore del Jihad e le nostre sviste
L'uccisione di padre Jacques Hamel nella chiesa di Saint-Etienne-du Rouvray segna il passaggio di una linea rossa: quella della guerra di religione conclamata. Di fronte a un fatto così grave, intellettuali musulmani si interrogano su quali siano gli errori capitali da correggere nella propria cultura. E noi, in compenso, siamo costretti a capire quali siano i nostri errori di intelligence che ci hanno impedito di prevenire l'orrore.
L’ennesimo attentato sul territorio europeo, il primo attentato a colpire brutalmente un sacerdote, ma l’ultimo di una lunga serie, deve condurre a una riflessione immediata su quanto è accaduto, sulle sue cause, sulle sue conseguenze, sugli errori commessi e che non devono più essere ripetuti. Gli appelli di due intellettuali musulmani pubblicati negli ultimi giorni vanno in questa direzione.
Lo scrittore Tahar Ben Jelloun, dalle pagine de La Repubblica, lancia un appello disperato ai musulmani residenti in Europa perché i terroristi islamici “hanno superato una linea rossa: entrare nella chiesa di una piccola città della Normandia e aggredire un anziano, un prete, sgozzarlo come un agnello, ripetere il gesto su un'altra persona, lasciandola a terra nel suo sangue tra la vita e la morte, gridare il nome di Daesh e poi morire: è una dichiarazione di guerra di nuovo genere, una guerra di religione. Sappiamo quanto può durare, e come va a finire. Male, molto male. [...]”. Ben Jelloun invita quindi a una presa di coscienza perché “non basta insorgere verbalmente, indignarsi ancora una volta e ripetere che "questo non è l'islam". Non è più sufficiente, e sempre più spesso non siamo creduti quando diciamo che l'islam è una religione di pace e di tolleranza. Non possiamo più salvare l'islam - o piuttosto - se vogliamo ristabilirlo nella sua verità e nella sua storia, dimostrare che l'islam non è sgozzare un sacerdote, allora dobbiamo scendere in massa nelle piazze e unirci attorno a uno stesso messaggio: liberiamo l'islam dalle grinfie di Daesh. Abbiamo paura perché proviamo rabbia. Ma la nostra rabbia è l'inizio di una resistenza, anzi di un cambiamento radicale di ciò che l'islam è in Europa”.
Anche Abdennour Bidar, il filosofo di origine algerina residente a Nizza, già nel 2014 pubblicava la “Lettera al mondo musulmano” nella quale esprimeva molti concetti vicini a quelli espressi oggi da Ben Jelloun: “Che cosa dici davanti a questo mostro? Qual è il tuo discorso? Tu urli "Non sono io!", "Non è l'Islam". Rifiuti che i crimini commessi da questo mostro siano commessi sotto tuo nome (hashtag #NotInMyName). Sei indignato davanti ad una tale mostruosità, insorgi quando il mostro usurpa la tua identità, e hai sicuramente ragione di farlo. È indispensabile che davanti al mondo proclami, ad alta voce che l'islam denuncia le barbarie. Ma è assolutamente insufficiente! Poiché tu ti rifugi nel riflesso dell'autodifesa senza assumerti anche, e soprattutto, la responsabilità dell'autocritica. Ti accontenti d'indignarti, quando invece questo momento storico sarebbe stata un'occasione incredibile per rimetterti in discussione! E come sempre, tu accusi invece di prenderti la tua responsabilità: ‘Smettetela, voi occidentali e tutti voi nemici dell'Islam, di associarci a questo mostro! Il terrorismo non è l'islam, il vero islam, l'islam buono che non vuole la guerra, ma la pace!’ E ancora: ‘Sicuramente nel tuo immenso territorio ci sono degli isolotti di libertà spirituale: delle famiglie che trasmettono un islam di tolleranza, di scelta personale, di approfondimento spirituale; dei contesti sociali nei quali la gabbia della prigione religiosa si è aperta o semi-aperta; dei luoghi in cui l'islam da ancora il meglio di sé che corrisponde ad una cultura della condivisione, dell'onore, della ricerca di sapere e una spiritualità alla ricerca di questo luogo sacro dove s'incontrano l'essere umano e la realtà ultima chiamata Allah. In Terra islamica e ovunque nelle comunità musulmane del mondo ci sono delle coscienze forti e libere, ma esse sono condannate a vivere la loro libertà senza certezza, senza riconoscenza di un diritto veritiero, lasciate a loro rischio e pericolo di fronte al controllo comunitario o addirittura talvolta di fronte alla polizia religiosa. Fino ad ora non è mai stato riconosciuto il diritto di dire ‘Io scelgo il mio islam’, ‘Ho il mio proprio rapporto con l'islam’ da parte dell'‘islam officiale’ di coloro che hanno una dignità.”
Dopo lo sgozzamento di padre Jacques Hamel nella chiesa di Saint-Etienne-du Rouvray, Bidar si sente in dovere di dare tre consigli ai musulmani e ai francesi, in modo particolare alle istituzioni: “Dichiarare la fraternità invece di dichiarare guerra, vale a dire, rifiutare la trappola dell'odio tra identità e essere solidali nell'affermare i nostri valori, senza lasciarsi dividere da ciò che ci attacca. Avere il coraggio e la forza di combattere non solo contro la radicalizzazione dei potenziali terroristi, ma vietare e punire sul nostro territorio qualsiasi dimostrazione pubblica di un islam integralista, il cui semplice criterio contraddice la nostra cultura, i nostri valori, le nostre leggi e il nostro modo di vivere. Infine avere il coraggio di non intrattenere rapporti commerciali e diplomatici indegni con stati musulmani fondati sul potere di una religione arcaica, intollerante ed espansionista - Arabia Saudita, Iran, e così via.”
Il secondo consiglio di Bidar illustra quanto accaduto molto spesso sul suolo europeo dal quale sono passati e sul quale operano ancora promotori del jihad à la carte, ovvero in base alle loro esigenze politiche, e che giustificano gli attentati suicidi in caso di necessità. Bidar invita a sviluppare un senso di responsabilità in seno alle istituzioni, tuttavia questo non è sufficiente. Alla responsabilità, che a seguito dei recenti tragici eventi dovrebbe essere ancora più scontata, si deve affiancare e sviluppare necessariamente una sensibilità specifica al fenomeno “terrorismo di matrice islamica” che richiede sia una chiave di lettura diversa rispetto al terrorismo di sinistra o di destra sia misure preventive diverse rispetto alle passate espressioni terroristiche autoctone. Ad esempio, gli attentatori di Saint-Etienne-du Rouvray e Ansbach erano già nel mirino delle autorità francesi e tedesche, l’uno aveva cercato invano di raggiungere la Siria prima dalla Germania poi dalla Svizzera, l’altro – a quanto si legge sul bollettino dello Stato Islamico al-Nabà – era già stato in Siria e avrebbe voluto ritornarvi. Entrambi hanno quindi, ciascuno a modo suo, messo in atto il recente invito del portavoce dell’ISIS Mohamed al-Adnani di colpire in patria laddove impossibilitati a raggiungere la Siria. In siffatto contesto avrebbero dovuto essere stati dei “sorvegliati speciali”, ma non è accaduto forse per semplice mancanza di comprensione del fenomeno che porta a un lavaggio totale del cervello che mira solo a portare a termine la missione distruttiva.
La stessa sensibilità dovrebbe essere sviluppata nei confronti di alcuni imam apparentemente innocui e le cui dichiarazioni sono ufficialmente moderate, ma di fatto celano idee radicali. Il provvedimento di espulsione emesso dal Ministero dell'Interno ieri per Mohammed Madad, 52 anni, imam del centro islamico "Al-sunna" di Noventa Vicentina è un esempio in questo senso. L’imam espulso per il suo atteggiamento radicale, e perché ultimamente i suoi sermoni a Noventa Vicentina avevano assunto un profilo sempre più antioccidentale. Costui in un’intervista del 2015 veniva descritto come una persona che padroneggia bene l’italiano e che accoglie la giornalista italiana in moschea senza problemi. Madad aveva dichiarato: “L’islam è una religione di pace e perdono. Predica di volersi bene, aiutarsi e amarsi l’un l’altro. Consiglia ma non obbliga l’uso del velo. Il nostro saluto, ‘Assalamu alaykom’, è un saluto di pace. ‘Islam’ significa ‘pace’. Siamo vissuti per secoli in pace con ebrei e cristiani. Non è mai successo quello che sta succedendo ora” e ancora: “Chi uccide non capisce la religione. In questo momento ognuno parla della religione come gli pare, ma la religione è difficile. È importante imparare da un Imam che conosce bene e spiega bene la religione. Bisogna leggere il Corano. Non ascoltare le persone che ne parlano senza conoscerlo, perché le persone sbagliano.” Medad si è quindi radicalizzato nell’arco di un anno oppure mascherava le proprie idee e la giornalista e le istituzioni non hanno avuto la sensibilità di leggere tra le righe?
Molti sono gli interrogativi che sorgono osservando quanto accaduto negli ultimi anni, e nell’ultimo mese in particolare. Risposte difficili da trovare e soluzioni ardue da elaborare poiché non possono essere tinte né di bianco né di nero perché il terrorismo islamico è un fenomeno estremamente complesso dove molti fattori entrano in gioco. Solo un senso di profonda responsabilità da parte di mezzi di comunicazione, istituzioni e organizzazioni islamiche unitamente alla sensibilità e alla consapevolezza del pericolo da parte di istituzioni e cittadini potranno contribuire ad affrontare, e forse sconfiggere, le metastasi del cancro che si sta diffondendo nel mondo intero, metastasi che stanno raggiungendo il cuore della nostra società e che colpisce indiscriminatamente cristiani, ebrei e musulmani.