Riad a guardia dei diritti che non riconosce
Incredulità, stupore e rabbia fra le famiglie dei condannati a morte in Arabia Saudita. Ora il loro aguzzino è stato nominato dall'Onu alla presidenza del comitato di esperti dei diritti umani. L'Arabia Saudita non riconosce nemmeno formalmente i diritti umani.
Nei giorni scorsi il Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite ha chiamato Faisal bin Hassan Trad, l’ambasciatore saudita all’ONU, a presiedere un comitato di diplomatici incaricato a scegliere i candidati a ruolo di “esperti delle Nazioni Unite” da inviare in quei Paesi dove l’ONU ritiene che i Diritti Umani vengano violati.
Incredulità, stupore, rabbia sono i sentimenti che sono circolati nell’ambito ristretto delle ONG che si occupano di diritti umani, prima tra tutte Amnesty International. Incredulità, stupore, delusione, rabbia e disperazione i sentimenti espressi e urlati da chi come Ensaf Haidar - moglie del blogger saudita Raif Badawi condannato a mille frustate, a dieci anni di reclusione e a dieci anni di divieto di abbandonare il paese e a un’ammenda di oltre 250.000 euro – lotta giorno e notte per ottenere il rilascio del coniuge e padre dei suoi piccoli figli, reo di avere avviato un sito di pensatori liberali e di avere espresso le proprie idee in libertà. “E’ un semaforo verde da parte della comunità internazionale a portare a termine la flagellazione di Raif!”, questa è stata la prima reazione di Ensaf, minuscola donna dalla forza e dalla determinazione inesauribile che da quando il marito è stato arrestato non ha mai smesso di lottare. Giorni fa è stata lanciata in Germania la Fondazione Raif Badawi per aiutare tutti i liberi pensatori nelle condizioni di Raif. Il caso del blogger saudita è seguito da governi, da ONG per i diritti umani, cantanti di fama internazionale. Ma l’incredibile mobilitazione non ha ottenuto nulla se non l’arresto della flagellazione.
L’attribuzione all’Arabia Saudita del recente ruolo per gestire nomine di esperti che potrebbero, anzi dovrebbero, recarsi sul suo territorio per verificare il livello del rispetto dei diritti umani rappresenta quanto meno un conflitto di interessi. E’ naturale chiedersi il motivo di tale assurda nomina: accondiscendenza, ingenuità oppure mera ragion politica, anzi economica?
L’ingenuità delle istituzioni nei confronti dell’Arabia Saudita è confermata dalla risoluzione 2015/2550 del Parlamento Europeo riguardante “Arabia Saudita: il caso di Raif Badawi”. Nelle premesse del documento si fa esplicito riferimento sia all'articolo 18 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948 e alla “Carta araba dei diritti dell'uomo, ratificata dall'Arabia Saudita nel 2009, il cui articolo 32, paragrafo 1, garantisce il diritto all'informazione e la libertà di opinione e di espressione, e il cui articolo 8 vieta la tortura fisica o psicologica e ogni trattamento crudele, degradante, umiliante o disumano”. Ebbene una delle risposte ufficiali dell’Arabia Saudita alla Dichiarazione dei diritti dell’Uomo del 1948 fu un Memorandum ufficiale in cui si esprimevano le seguenti riserve che, come si vedrà riguardavano anche il suddetto articolo 18:
“a) la proibizione per le donne musulmane di contrarre matrimonio con un non musulmano: questo potrebbe sembrare, a chi è estraneo all’islam, un impedimento subìto dalla donna musulmana, essendovi la tentazione di considerare questo divieto come contrario all’articolo 16 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo;
b) il divieto fatto al musulmano di cambiare religione: questo potrebbe sembrare, a chi è estraneo all’islam, un impedimento subìto da chi appartiene alla religione islamica, essendovi la tendenza a considerare tale divieto come contrario all’articolo 18 della dichiarazione citata;
c) infine il divieto, vigente nel Regno nei confronti degli operai, di fondare sindacati. L’articolo 8 del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali proclama in effetti «il diritto di ogni individuo di costituire con altri dei sindacati e di aderire al sindacato di sua scelta, fatte salve soltanto le regole stabilite dall’organizzazione interessata». Lo stesso articolo stabilisce che «l’esercizio di questo diritto non può essere sottoposto a restrizioni che non siano stabilite dalla legge». Il diritto di sciopero è infine riconosciuto all’operaio a condizione che questo diritto sia esercitato conformemente alle disposizioni in vigore nello stato interessato”.
Il punto di vista saudita sulla libertà e sui diritti umani viene ulteriormente chiarito nei paragrafi successivi del Memorandum: “Si può notare che la prassi dell’islam non tende a limitare la libertà. La sua intenzione è piuttosto quella di sventare le trame di coloro che cercano di seminare la discordia sulla terra. Si tratta di un punto di vista islamico fondato su alcuni motivi razionali, e che dipende dalla libertà di convinzione. Una visione differente non potrebbe abolirla, giacché ognuno ha uno specifico punto di vista. Il Regno ha il proprio, che è giustificato da alcune ragioni storiche, oltre che dalla preoccupazione che l’accesso all’islam sia riservato soltanto a coloro che vi credono fermamente. Questa posizione sottintende un estremo rispetto della credenza religiosa, giacché l’islam non ammette che la fede religiosa possa essere considerata una semplice manifestazione superficiale, esposta continuamente alla possibilità̀ di deviazioni”. Il caso di Raif Badawi dimostra che la libertà concessa in Arabia Saudita non solo non deve aggredire l’islam, ma soprattutto non deve aggredire la famiglia dei Saud.
Quanto al riferimento alla Carta araba, quanto appena riportato conferma che nel Regno saudita la sharia, diritto di origine divina che mira a tutelare la continuità al potere della famiglia reale, prevale su qualsiasi documento o accordo internazionale.
La nomina dell’ambasciatore saudita a presiedere un consiglio volto a tutelare i diritti umani stupisce e preoccupa in quanto atto irresponsabile della comunità internazionale. Stupisce in un momento in cui il mondo, le istituzioni e la stampa internazionali hanno giustamente pianto la salma di un bimbo curdo riverso su una spiaggia turca, ma nessuno si è scandalizzato al semplice ingresso dell’Arabia saudita in seno al Consiglio dei diritti umani dell’ONU. Oggi la rabbia dovrebbe decuplicarsi perché nel momento in cui Trad veniva nominato, giungeva la notizia della condanna a morte in Arabia Saudita del ventunenne sciita Ali Mohammed al-Nimr. Il giovane fu arrestato quando aveva 17 anni ufficialmente per avere partecipato a proteste anti-governative e per presunta detenzione di armi da fuoco, ma di fatto per essere il nipote dello shaykh sciita Nimr Baqir al-Nimra anch’egli condannato a morte nel 2014. Da qualche giorno la famiglia ha perso contatto con il giovane e si teme che l’atroce pena – decapitazione seguita da crocifissione – possa essere stata eseguita. Si spera che il silenzio sia dovuto alle festività islamiche, ma la preoccupazione cresce.
Ensaf, moglie di Raif Badawi, Samar, sorella di Raif e moglie di Walid Abu al-Khayr anch’egli in carcere e condannato in base alla legge antiterrorismo, la famiglia del giovane Ali non si sono certamente sentite protette dalle Nazioni Unite né si sentiranno maggiormente tutelate dalla gestione saudita della nomina degli esperti volti a tutelare i diritti umani. Ma nemmeno l’Occidente si sente al sicuro se le Nazione Unite riservano onori e cariche a chi decapita, flagella e condanna e, soprattutto, al paese che per primo ha rifiutato di siglare la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo.