Renzi vuole le urne e trama per la fine di Gentiloni
Anche se nessuno lo dice apertamente, è iniziata da mesi una lunghissima campagna elettorale destinata a durare un anno intero. Renzi, non potendo staccare platealmente la spina all’attuale inquilino di Palazzo Chigi, prova a tendergli qualche imboscata. Per tentare il voto subito e "giocarsela" con Mattarella.
Anche se nessuno lo dice apertamente, è iniziata da mesi una lunghissima campagna elettorale destinata a durare un anno intero. I partiti sono già alle prese con candidature, liste, alleanze, proclami demagogici, senza rendersi conto dello scollamento crescente tra politica e opinione pubblica e dell’irrefrenabile dilagare dell’antipolitica.
Ciò che sta succedendo in casa Pd appare destinato a influenzare il futuro della legislatura. Il governo è certamente più debole di un mese fa, perché i renziani non vedono l’ora di farlo cadere. Si è infatti sparsa la voce, nei Palazzi, che l’attuale premier non disdegni la possibilità di riproporsi come guida di un esecutivo di larghe intese subito dopo le urne. Un’ipotesi tutt’altro che improbabile, considerato che con l’attuale legge elettorale non ci sarebbero né vincitori né vinti.
Tutti i sondaggi, infatti, sono concordi nel pronosticare che nessun partito raggiungerà la soglia del 40%, fissata dall’attuale sistema di voto per far scattare il premio di maggioranza. A quel punto il Presidente della Repubblica dovrebbe, come è prassi, affidare l’incarico di formare il nuovo governo a un esponente del partito più suffragato (Cinque Stelle?) e, qualora questo partito non riuscisse ad aggregare i consensi necessari per raggiungere una maggioranza, si vedrebbe costretto ad esplorare altre soluzioni, la più gettonata delle quali, nei rumors degli ultimi mesi, è quella delle larghe intese Pd-Forza Italia.
Nelle ultime settimane sembra soffiare più forte il vento delle elezioni anticipate. L’agenzia di rating Fitch, proprio due giorni fa, ha declassato l’Italia, in ragione dell’elevato debito pubblico e della crescente instabilità politica, dovuta anche alle incertezze del quadro nazionale. Il braccio di ferro tra ministri tecnici (Padoan e Calenda) e esponenti renziani si fa sempre più aspro, man mano che ci si avvicina a quella manovra finanziaria che tutti i partiti di governo temono per la sua impopolarità. In più, Renzi vorrebbe evitare di continuare ad appoggiare un esecutivo costretto ad assumere decisioni potenzialmente in grado di scontentare ampie fette di opinione pubblica e, non potendo staccare platealmente la spina all’attuale inquilino di Palazzo Chigi, prova a tendergli qualche imboscata.
La prima è stata quella dell’elezione (a sorpresa) di Torrisi (Alternativa popolare) alla presidenza della commissione affari costituzionali del Senato, che ha acuito i dissidi tra dem e alfaniani. Gli altri “incidenti di percorso” hanno riguardato due rappresentanti di punta delle istituzioni, sempre più tiepidi con l’ex premier: Raffaele Cantone e Antonio Campo Dall’Orto. Il primo, presidente dell’Autorità anticorruzione, si è visto sottrarre dal governo poteri preventivi di raccomandazione di fronte a presunte anomalie nei bandi di gara, anche se poi l’esecutivo ha provato a metterci una pezza, dichiarando che presto porrà rimedio all’”infortunio”.
Il secondo, direttore generale Rai, è sottoposto a un vero e proprio attacco concentrico da parte di maggioranza e opposizione, poiché Matteo Renzi ha deciso di disfarsene e vuole sostituirlo con uno più accondiscendente ai suoi voleri. Tutto questo nonostante Renzi, alla vigilia del referendum costituzionale del 4 dicembre, vale sempre la pena di ricordarlo, aveva promesso agli italiani che si sarebbe ritirato dalla politica se avessero vinto i “No”. I “No” hanno stravinto ma lui è rimasto li’ e non ha nessuna intenzione di abbandonare il campo, anzi ha messo la sordina alle primarie Pd perché teme che un’eccessiva affluenza ai gazebo possa favorire i suoi competitors Orlando ed Emiliano.
Lui vuole riappropriarsi in fretta del partito e puntare tutto sullo showdown: elezioni politiche al più presto, prima della manovra finanziaria, lui candidato premier del centrosinistra e, in caso di pareggio o di stallo, lui presidente del consiglio di un governo di responsabilità nazionale. Per lui conta soltanto tornare a Palazzo Chigi, con qualunque mezzo e con qualunque maggioranza.
Ecco perché il Pd non vuole neppure provare a cambiare la legge elettorale, perché ciò allungherebbe fino alla sua fine naturale la vita della legislatura e costringerebbe Renzi a restare con il cerino in mano e ad appoggiare fino alla fine l’attuale esecutivo, offrendo di fatto visibilità, prestigio e platea internazionale a Gentiloni. Collegi uninominali, premio alla lista e armonizzazione delle soglie di Camera e Senato sono i contenuti della proposta Pd di riforma elettorale, che però non ha alcuna possibilità di essere discussa e approvata e che serve a Renzi solo per scaricare sugli altri partiti le responsabilità di non aver voluto modificare l’attuale sistema proporzionale di voto.
Senza contare che le elezioni francesi potrebbero produrre riflessi devastanti sul clima politico italiano, dando fiato alle trombe del populismo spinto e mandando all’aria definitivamente i sogni renziani di rivincita.