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GOVERNO FRAGILE

Renzi va avanti a colpi di fiducia. Come Letta

Come il suo predecessore Letta, anche il governo Renzi deve galleggiare su maggioranze risicate e ricorre spesso al voto di fiducia per far passare le sue misure. Come è successo con la riforma del lavoro. E' quasi impossibile che duri fino al 2018.

Politica 09_05_2014
Matteo Renzi

Sembra un dejà vu e in effetti lo è. L’altro giorno il governo ha dovuto porre nuovamente la questione di fiducia sul decreto lavoro, che altrimenti rischiava di non passare. Esattamente come succedeva con il governo precedente, anche  l’esecutivo in carica è costretto spesso a blindare i suoi provvedimenti per evitare scivoloni.

Al di là dei proclami trionfalistici e delle annunciate misure miracolistiche, Matteo Renzi si comporta sempre più come Enrico Letta. Rinvii e voti di fiducia sono ormai la regola nella vita di esecutivi che nascono con maggioranze troppo eterogenee, incapaci di compattarsi su questioni cruciali per la vita del Paese, come quelle del lavoro, dell’immigrazione, del fisco.

D’altronde, i numeri ai quali si aggrappa l’attuale premier sono altrettanto risicati quanto quelli del suo predecessore. I mal di pancia pre-elettorali del Nuovo Centrodestra, terrorizzato dalla prospettiva di non arrivare al 4%, si sommano alle inquietudini di forze altrettanto a rischio quorum come Scelta europea. Ma il vero tallone d’Achille di Palazzo Chigi è rappresentato dalle lacerazioni all’interno della sinistra. Non è un caso che, nelle convulse ore della votazione degli ordini del giorno riguardanti la riforma del Senato, il Presidente del Consiglio abbia dovuto minacciare le sue dimissioni e abbia dovuto avvertire i “dissidenti” del Pd circa la sua intenzione di non ricandidarli alle prossime politiche se avessero votato contro la mozione preparata dal ministro Boschi.

Gran parte della stampa si concentra sulle tensioni nel centrodestra, che pure ci sono, trascurando le profonde differenze che dividono la politica renziana dalle posizioni della minoranza del Pd. Tanti esponenti della vecchia guardia democratica strizzano l’occhio alla Camusso per contrastare le azioni del governo in materia di lavoro. L’ultima versione del job act è diversa da quella inizialmente presentata dal governo e ha già recepito molte delle indicazioni del sindacato. Frena in parte la competitività sul mercato del lavoro e al momento scontenta molti, perché anche le forze d’opposizione come Forza Italia che avrebbero a parole voluto votare a favore si sono ricredute e hanno votato contro. Gli alfaniani cantano vittoria perchè sono riusciti a inserire elementi di flessibilità, che però dal punto di vista pratico non sembrano risolutivi per sbloccare le assunzioni e liberare risorse ed energie sul mercato del lavoro.

Ma la sinistra massimalista è ormai un arcipelago di correnti segnate da malanimi e rancori personali destinati ad esplodere dopo le europee, anche in caso di affermazione del partito. Il dualismo Camusso-Landini all’interno del sindacato è ormai di dominio pubblico e ciascuno dei due leader ha sponde nel Partito democratico.

Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Delrio,  uno degli uomini più vicini a Renzi, ha dichiarato di temere un nuovo bipolarismo Pd-Movimento Cinque Stelle perché potrebbe essere letale per il processo riformatore. La speranza del premier è che il Pd arrivi primo con oltre il 30% dei voti e che Grillo sia staccato di parecchi punti, almeno 7-8. Inoltre Renzi si augura che Forza Italia non scenda sotto il 20% e che Alfano superi lo sbarramento del 4%. Se, al contrario, i berlusconiani restassero sotto il 20 e il Nuovo Centrodestra subisse una debacle, anche il governo sarebbe a rischio. Potrebbe esserci una deflagrazione del centrodestra e una ricomposizione su basi imprevedibili, con la possibile uscita degli alfaniani dal governo, al fine di non lasciare a Grillo e alle ali estreme della sinistra il monopolio dell’opposizione.

Ecco perché, al di là delle frasi di circostanza (“la giustizia faccia il suo corso”), il premier è preoccupato per le inchieste sugli appalti Expo e sulla latitanza dell’ex parlamentare Matacena. Se Forza Italia e Pd dovessero uscire con un’immagine appannata dalle indagini in corso, a trarre giovamento sarebbe esclusivamente il movimento di Grillo, che farebbe il pieno di consensi e, un minuto dopo i risultati delle europee, alzerebbe la voce per chiedere elezioni e per invocare un governo eletto dal popolo.

Renzi sa bene di non poter durare fino al 2018 con una coalizione così composita e rissosa al suo interno, tanto più che a settembre-ottobre dovrà iniziare a occuparsi di legge di stabilità e a individuare le voci alle quali attingere gli oltre 20 miliardi che l’Italia è tenuta a reperire per adeguarsi agli impegni presi in Europa. Con una maggioranza fragile non potrebbe farcela e allora ha bisogno del dialogo sulle riforme con Berlusconi, ma un Berlusconi con una forza elettorale consistente, non un Berlusconi in declino e in caduta libera anche elettoralmente.