Renzi non crei un potere monocolore
Premier, Presidente, ministri chiave, la maggioranza dei presidenti regionali e provinciali, le principali giunte comunali, banche, sindacati... tutto è nelle mani del Pd. L'assenza di pesi e contrappesi è un rischio grave.
Il governo Renzi naviga col vento in poppa e l’assalto al carro del vincitore sembra ancora una volta lo sport preferito da politici, imprenditori, manager e professionisti. L’Italia, dopo le europee, si è scoperta profondamente renziana e nessuno più profetizza elezioni politiche anticipate prima del 2018 né ostacoli che possano turbare nel medio periodo l’entusiasmante luna di miele tra il premier e gli italiani.
Prima delle europee c’era chi, anche tra i sondaggisti, non escludeva il sorpasso grillino. Nessuno aveva previsto un’avanzata così impetuosa del Partito Democratico, votato in massa dagli ex montiani (il partito “Scelta civica” nelle urne si è praticamente liquefatto) e da qualche berlusconiano timoroso che il Movimento Cinque Stelle potesse destabilizzare il quadro politico.
Ora, però, il risultato delle europee ha rafforzato enormemente Renzi in Italia e l’Italia in Europa e ha posto le premesse per un inedito monocolore Pd al governo e nelle istituzioni.
Basta scorrere l’elenco delle principali cariche dello Stato per constatare che il Pd fa praticamente l’en plein: al Quirinale (Napolitano), a Palazzo Madama (Grasso), a Palazzo Chigi (Renzi), nei ministeri-chiave, alla Presidenza di quasi tutte le Regioni, delle Province (abolite ma al momento ancora in piedi), alla guida delle più importanti città capoluogo. Per non parlare della Consulta, nella quale siede una maggioranza di giudici vicini al Pd. Senza dimenticare le magistrature ordinarie e amministrative, le organizzazioni sindacali, gli enti di sottogoverno, le più importanti banche italiane, ecc.
Per carità, il Pd fa bottino pieno anche perché la volontà popolare, soprattutto alle elezioni amministrative, tende a premiare una sinistra tradizionalmente più radicata nel territorio rispetto a una destra da tempo in scarsa sintonia con la maggioranza degli italiani.
Tuttavia, il problema di una concentrazione di potere nelle mani di un partito c’è. Tanto più che questo partito non può paragonare la sua vittoria alle europee con il successo conseguito dalla Dc alle elezioni politiche del 1958. Erano i tempi di Fanfani, Togliatti, Nenni e la percentuale di astensione tra gli aventi diritto al voto non raggiunse i tre punti. A quella tornata elettorale lo scudo crociato prese il 42,3% dei voti. Una settimana fa, peraltro in un voto europeo, teoricamente senza riflessi immediati sulla politica nazionale, il Pd ha raccolto il 40,8% dei consensi, ma a votare sono andati solo 57 italiani sui 100 che avrebbero dovuto e potuto farlo. Si può dire che il partito degli astenuti ha raggiunto il 43% e dunque è saldamente il primo partito italiano. Tra gli astenuti in prevalenza ex berlusconiani ed ex grillini delusi dai rispettivi leader e svogliati rispetto all’appuntamento con la cabina elettorale.
Ne discende che la vittoria di Renzi, pur clamorosa e indiscutibile, rimane figlia di un clima profondamente dominato dall’antipolitica e rischia di essere fuorviante per il premier, che ha un imperativo categorico imprescindibile per inaugurare un ciclo virtuoso di governo e di riforme: mantenere le promesse fatte in campagna elettorale e all’indomani del suo insediamento a Palazzo Chigi.
Ma se è vero che intende coinvolgere nel processo riformatore tutte le forze politiche (il Patto del Nazareno sembra reggere e con la sinistra estrema e i transfughi grillini sono in corso contatti e potrebbe esserci un disgelo nelle prossime ore), dovrebbe dimostrare doti degasperiane di statista allargando il perimetro della responsabilità politica anche ai partiti che non stanno al governo.
La democrazia si regge su un sistema di pesi e contrappesi e non può essere troppo sbilanciata in favore di un partito dominante. Per quanto nel Pd si manifestino apporti culturali anche di tipo socialista e parzialmente liberale, resta il dato dell’appartenenza al Partito Democratico di gran parte dei decisori istituzionali. E questa è un’anomalia.
Renzi dovrebbe compiere un atto di coraggio, rifiutare la lottizzazione che ha ispirato le scelte di governance di enti pubblici e società partecipate e nominare anche persone vicine al centrodestra, purchè capaci e competenti, senza badare alle etichette. Magari iniziando dalla Rai, dove i tg sono sempre espressione di chi sta al governo mentre sarebbe utile avere una tv pubblica in grado di pungolare le istituzioni.
Finora nessun leader politico ha avuto questo coraggio degasperiano di non strafare e di aprire la gestione della cosa pubblica anche agli sconfitti. Renzi sarà capace di stupire anche in questo?