Renzi miope Il mito partigiano non c'è più
La polemica su partigiani e referendum serve al premier per legittimarsi a Sinistra. Ma gli riesce male: i partigiani non ci sono più e quelli presi a modello sono le vittime: come il comandante "Diavolo", ingiustamente in galera al posto dei gappisti.
- La lettera IL PARTIGIANO RESUSCITATO
La querelle su come voteranno i partigiani in occasione del Referendum costituzionale serve a Renzi e al suo governo per legittimarsi presso una delle Chiesa della Sinistra e non perché il numero degli iscritti all’Anpi oggi possa spostare le sorti di una consultazione tanto incerta quanto decisiva, ma perché per un governo nato senza legittimazione popolare come quello del rottamatore c’è bisogno di accreditarsi presso certi mondi.
Dato che Renzi non poteva brandire il voto degli scout, per evidente assenza di peso politico, ha pensato di cercare una legittimazione nei partigiani. I quali gli avevano già risposto che avrebbero votato No. Ma Renzi sembra aver bisogno del Sì degli ex combattenti nella guerra civile per conquistare una Sinistra che gli è ormai disaffezionata e caricare il referendum di significati che con la lotta all’antifascismo non hanno nulla a che fare.
Che Renzi e la Boschi parlino di come voteranno i veri partigiani, per nulla provenienti da quella storia è come se Brocchi, con tutti i pensieri che ha, si mettesse a disquisire su quanti big dovrà sacrificare l’Inter per dare ossigeno al suo bilancio.
Però da due giorni tiene banco questa polemica stantìa e mezza Italia sta a guardare senza capire per quale motivo così, di punto in bianco, i partigiani siano diventati così decisivi per le sorti del governo. E a Renzi fa gioco perché se i partigiani lo sostengono viene meno anche l’accusa che l’ex sindaco di Firenze abbia fatto una riforma in senso totalitario, dato che questa è una delle accuse che riceve da Destra e da Sinistra.
Anzitutto è bene chiarire una cosa: i partigiani che Renzi, la Boschi, ma anche Bersani evocano sono chiaramente quelli iscritti all’Anpi, dove sono confluiti tutti gli ex combattenti delle brigate Garibaldi di estrazione comunista. Nessuno ha preteso di avere il voto degli altri ex combattenti delle associazioni partigiane non comuniste: perché sono pochi, ma soprattutto perché non ci sono più.
A differenza dell’Anpi infatti, queste associazioni, come la cattolica Alpi, sono raggruppamenti di ex combattenti, ma nel corso degli anni non hanno lanciato campagne di tesseramento per rimpolpare le loro fila. Invece l’Anpi per sopravvivere e continuare a ricevere i corposi finanziamenti pubblici (a proposito: quanti?) negli ultimi decenni ha cercato di reagire all’inevitabile carenza di iscritti, a causa della biologia, immettendo forze fresche e giovani per portare avanti il mito del partigiano che lotta per la libertà. Basta proclamarsi antifascista. Ma dato che non c'è un invasore da combattere la centrale partigiana si è dovuta inventare di volta in volta le emergenze democratiche a difesa della Costituzione, che è così diventata un nuovo totem, per dare un senso alla sua esistenza.
Oggi infatti il 90% degli iscritti all’Anpi (nel 2010 erano circa 120 mila, come scrive sul suo sito) non ha fatto la Resistenza. Proviene per la maggior parte dalla fascia d’età 50-70 anni. I presidenti delle locali sezioni non hanno mai imbracciato un fucile e non hanno mai sparato ad un tedesco. Che senso ha dunque tenere in vita un’associazione di reduci combattentistici che non ha fatto la guerra e che non serve più come servì negli anni ’50 per assicurare alle vedove della causa partigiana la pensione e la medaglia ai combattenti superstiti?
Serve solo a tenere viva la fiamma dell’antifascismo militante, declinato in forme che negli anni ’90 e prima decade del 2000 aveva le sembianze dell’antiberlusconismo e oggi, non potendo spingersi a chiamare Renzi un novo duce, deve comunque aggrapparsi all’intangibilità della Carta.
Altre utilità non se ne vedono all’orizzonte per la sopravvivenza dell’Anpi. Avrebbe potuto portare un contributo fattivo durante la stagione pansiana del revisionismo, ma i vertici partigiani si sono arroccati nel loro oscurantismo e la doverosa operazione di autocritica sui tanti morti che fecero i partigiani rossi, non c’è stata.
Perché in Italia c’è ancora un tabù intoccabile: è vietato dire che i partigiani, soprattutto gappisti, abbiano ucciso indiscriminatamente e per puro odio, tanti fratelli italiani, per nulla coinvolti col Fascismo. La storia li certifica, ma la vulgata no. Il sangue versato da innocenti è ancora da raccogliere nel calice della riconciliazione nazionale, che di fatto non è mai avvenuta.
Cosicché anche per politici che nulla conoscono di quella storia come Renzi, il partigiano è ancora quella figura mitologica di eroe senza macchia e senza paura, che ci ha dato la libertà. E pazienza se la storia opera molti distinguo. A cominciare anche dai casi che si vogliono portare a esempio per sostenere una tesi puttosto che un'altra.
Il Corriere infatti, per portare acqua alla causa del premier, ha intervistato Germano Nicolini, chiamandolo il comandante Diavolo e mettendo in luce il suo coraggio durante la guerra di Liberazione. Ovviamente perché Nicolini, che oggi ha 96 anni, ha deciso di votare Sì al referendum anche se si definisce non renziano e ribadisce che i partigiani devono essere liberi di scegliere quello che vogliono. Ma l’esempio di Nicolini sta proprio a certificare che il mito del partigiano buono a tutti i costi, comunista e detentore della vulgata, non è l’esempio migliore da portare per difendere le ragioni del no e neppure quelle del sì. Perché lo stesso Nicolini è una vittima di quel mito.
Germano Nicolini di Correggio (RE) quando nel giugno 1946 venne ucciso don Umberto Pessina, fu arrestato e si fece quasi dieci anni di galera come mandante di quell’omicidio avvenuto fuori tempo massimo, a guerra ormai finita. Si dichiarò innocente e lottò tutta la vita per ottenere la revisione di quel processo da cui uscì condannato ingiustamente. La storia gli ha dato ragione soltanto nel 1993 quando a confessare quel delitto furono i veri autori: tutti partigiani gappisti che volevano minacciare, o spaventare (anche in sentenza le motivazioni sono state poco approfondite) il prete.
Quel delitto certificò, come tanti altri, che all’interno del movimento partigiano, c’erano fasce di combattenti comunisti che portavano avanti un’altra guerra, prodromica alla rivoluzione sovietica. Anche Nicolini ne fece le spese, perché nonostante fosse stato un comandante partigiano, però della Brigata Sap, più preparata militarmente e meno condizionata ideologicamente, era di estrazione cattolica e borghese: non era un comunista doc. E dovette persino stracciare la tessera del Pci quando nel 1973 chiese insistentemente al partito la revisione del processo, cui il partito si oppose perché questo avrebbe gettato discredito sul Pci stesso e sul movimento partigiano: il mito del partigiano buono non doveva macchiarsi e Nicolini ne fece le spese.
Ma per gli anni che Nicolini trascorse in carcere e anche dopo, tutti sapevano chi erano gli autori e tutti sapevano che ad uccidere quel prete, come gli altri 130 conteggiati da Roberto Beretta nel suo indispensabile “Storia del preti uccisi dai partigiani”, erano stati partigiani gappisti che andavano di notte ad eliminare gli oppositori politici. E nel caso di don Pessina, come stabilì la sentenza del tribunale di Perugia del 12 dicembre 1993, Pci e Anpi di Reggio Emilia (che già allora erano un tutt’uno) non solo erano informati su chi fossero i veri autori, ma decisero di far visita armati a quel sacerdote con l’intenzione di minacciarlo attraverso degli squadroni della morte che chiamavano squadre di vigilanza democratica e che questura e carabinieri non potevano controllare.
Solo che la morte di don Pessina è stata fino ad oggi considerata come un effetto collaterale tutto sommato trascurabile rispetto all’epopea da celebrare. E ancor oggi, nel prendere a modello i partigiani, veri o finti che siano, Renzi sembra voler proseguire nell’utilizzo strumentale di protagonisti di una stagione che a Sinistra sono incapaci di inquadrare oggettivamente. La verità è che, veri o finti che siano, i partigiani comunisti non possono essere un esempio di coerenza perché tanto hanno ancora da farsi perdonare per i silenzi, le omissioni e l’occupazione della memoria di quella tragica stagione.
E mentre Renzi ripercorre quel mito, oltre al suo proverbiale cinismo, non fa altro che far emergere la sua impreparazione di fronte al compito cui è stato chiamato da Napolitano, senza essere legittimato da elezioni perché se i veri partigiani dovessero votare sì, allora, chi ha ancora ferite non rimarginate per quei delitti, e sono ancora tanti, si sentirebbe autorizzato a votare no. Come chi dice di votare sì perché non può stare assieme a Casa Pound. Ma la battaglia referendaria andrebbe affrontata nel merito e non con slogan demagogici e sterili e soprattutto senza coinvolgere i miti del passato perché a Sinistra c'è ancora tanto da lavorare per leggere la propria storia.