Renzi incassa il Job Act. Ma all'Europa basterà?
A Milano Renzi ha incontrato gli altri leader europei e ha messo sul tavolo il suo ennesimo successo virtuale. Il Jobs Act sul quale il governo è stato costretto a mettere la fiducia dovrebbe rappresentare la svolta per recuperare credibilità in Europa e strappare qualche concessione sul fiscal compact. Basterà all'Europa?
A Milano il premier ha incontrato gli altri leader europei e ha messo sul tavolo il suo ennesimo successo virtuale mascherato da riforma epocale. Il Jobs Act sul quale il governo è stato costretto a mettere la fiducia dovrebbe rappresentare la svolta per recuperare credibilità in Europa e strappare qualche concessione sul fiscal compact, ma la verità è che l’Italia continua ad essere un’osservata speciale, nonostante nell’intero Vecchio Continente (e non solo dentro i confini nazionali) si respiri aria di recessione.
Il Fondo Monetario Internazionale (Fmi), dopo aver rivisto ancora una volta al ribasso le stime del nostro Pil, ha raccomandato ai nostri governanti di abbassare le tasse sul lavoro e tagliare le pensioni e ha disegnato un quadro a tinte fosche per il futuro del nostro Paese. «L’Italia non è un Paese per cui si possa assicurare un futuro radioso, o quanto meno sereno. La crescita potenziale dell’Italia di fatto crolla per gli anni futuri. Siamo inchiodati allo 0,5%», ha sentenziato il direttore esecutivo del Fmi, Andrea Montanino. Ha rincarato la dose il capo missione del Fmi per l’Italia, Kenneth Kang, che ha insistito sulla necessità di fare in fretta sulle riforme: «Il piano di riforme è audace e ambizioso, ma bisogna agire in fretta per implementarlo. Il debito pubblico è sostenibile ma il Paese resta vulnerabile sui mercati». E poi ha indicato la strada da seguire: ridurre il costo del lavoro, che impedisce al sistema imprenditoriale di rilanciarsi; fare investimenti pubblici e rendere la revisione della spesa parte integrante del budget.
La spesa pensionistica, inoltre, è troppo alta e un taglio della spesa pubblica deve passare per un taglio della spesa previdenziale. Dal Fmi è arrivato anche l’invito alla commissione europea affinché valuti la possibilità di consentire ad alcuni Paesi dell'Ue di avere politiche di bilancio a supporto (dei costi) delle riforme strutturali, anche se questo si traducesse nello sforamento temporaneo dei parametri sui conti pubblici. Ma l’ottenimento di questa deroga per il nostro Paese è tutt’altro che scontato. Né è pensabile che l’Italia faccia come la Francia e decida di non rispettare il vincolo del 3% nel rapporto deficit-Pil.
Con questi moniti pressanti che arrivano da autorevoli soggetti istituzionali come il Fondo Monetario internazionale, diventa arduo per Renzi far digerire all’interno del suo partito e nel mondo sindacale le scelte che si accinge a fare nel Jobs Act. Anzitutto c’è un interrogativo che aleggia nelle aule parlamentari e che riguarda l’esatta delimitazione dei confini della legge delega sulla quale è stata posta la questione di fiducia. In quella legge delega ci sono anche le modifiche all’art.18? Se così fosse, si potrebbe dar seguito a quanto affermato in aula dal ministro Poletti (all’indirizzo del quale sono state lanciate delle monetine provenienti dai banchi del Movimento Cinque Stelle) e cioè che per i licenziamenti per motivi economici ci sarebbe solo un indennizzo e non il reintegro, invece previsto per i licenziamenti per motivi disciplinari e discriminatori. Tale modifica dell’art.18 non trova d’accordo la Fiom, che già minaccia di occupare le fabbriche, e l’intera Cgil, che è pronta alle barricate. Scricchiolii nell’unità sindacale si percepiscono nelle ultime ore a seguito delle prese di distanza di Cisl e Uil dalle posizioni della Camusso.
Al Senato, intanto, è stata bagarre, con il presidente Grasso paragonato dai grillini addirittura all’arbitro Rocchi per la sua presunta faziosità. I 35 dissidenti del Pd hanno marcato la loro distanza, ma poi hanno assicurato lealtà dicendosi pronti a votare la fiducia all’esecutivo per disciplina di partito. Ma il clima è rimasto teso e non è affatto detto che con lo strumento della legge delega il governo riesca a condurre in porto la riforma del lavoro nella versione integrale, l’unica in grado di convincere gli alleati europei della bontà e serietà del processo riformatore avviato dal governo Renzi.
Il lavoro è la vera priorità dell’Europa, come ha ricordato anche la Merkel a Milano. Nel vertice all’ombra della Madonnina è emersa ancora una volta la diversità di approccio tra la linea dell’austerità perseguita con ostinazione dai tedeschi e quella della “crescita in deroga”, intrapresa dalla Francia, che non intende rispettare i vincoli dei trattati europei perché punta a restituire ossigeno all’economia nazionale. L’Italia si colloca a metà strada: continua ad assicurare fedeltà al vincolo del 3% ma dichiara condivisione della scelta fatta da Hollande.
Le prossime settimane saranno decisive per il ruolo dell’Italia in Europa. Il maxi-emendamento sul lavoro consolida la riforma dell’art.18 (pur nell’equivoco sui contenuti della legge delega), introduce il contratto a tutele crescenti e incentivi alle aziende che assumono a tempo indeterminato, elimina i contratti a progetto e stanzia nuovi fondi per gli ammortizzatori sociali. Ma basteranno queste misure per rilanciare l’occupazione e la produzione industriale e attrarre investimenti da parte di aziende straniere? Se non sarà così e se l’Europa percepirà questa riforma come un semplice palliativo o, peggio, come una strumentale manovra per illudere i mercati, il governo Renzi sarà costretto a varare una manovra finanziaria aggiuntiva di lacrime e sangue. E a quel punto al premier non resterebbe altro che il ricorso anticipato alle urne per frenare l’inevitabile emorragia di consensi. Quirinale permettendo.