Renzi dialoga ma non cede: riforma o elezioni anticipate
La legislatura è a un bivio. Se entro il 15 ottobre non ci sarà l’approvazione in terza lettura della riforma del Senato, l’ipotesi elezioni anticipate diventerà la più realistica. Lo sa bene Renzi, che non a caso sembra già in campagna elettorale e forse non vede l’ora di andare all’incasso con gli elettori.
La legislatura è a un bivio. Se entro il 15 ottobre non ci sarà l’approvazione in terza lettura della riforma del Senato, l’ipotesi elezioni anticipate diventerà la più realistica. Lo sa bene Renzi, che non a caso sembra già in campagna elettorale e forse non vede l’ora di andare all’incasso con gli elettori, dopo le innumerevoli e roboanti promesse delle ultime settimane. Lo sanno bene i suoi oppositori, interni ed esterni al Pd, che hanno creato una sorta di cartello trasversale per difendere l’elettività dei senatori e chiedere modifiche all’Italicum.
Ieri sera, in una infuocata riunione con gli agguerriti senatori del suo partito, il premier ha ribadito che «indietro non si torna» e che non sono ammesse trattative al ribasso su aspetti qualificanti della riforma per il superamento del bicameralismo paritario. Tra i democratici, il congresso fissato per il 2017 sembra in realtà già iniziato con due anni d’anticipo. Al momento il collante dei filogovernativi a Palazzo Madama sembra essere solo la paura dello showdown, con lo scioglimento anticipato del Parlamento e il ritorno alle urne. Per il resto, il quadro composito degli alleati del premier appare un camaleontico schieramento che va da Verdini a Fitto, passando per gli alfaniani, alcuni dei quali sempre più riottosi, e il gruppo Gal per le autonomie. Tutti timorosi di non essere ricandidati o di non essere rieletti, e quindi disposti a votare qualsiasi provvedimento pur di non andare a casa.
Ma per cambiare la Costituzione si può davvero ricorrere a un’aggregazione ibrida, eterogenea e lontanissima da una sincera e compatta progettualità riformatrice? È quanto si chiedono autorevoli costituzionalisti e politologi, più che mai scettici rispetto all’accelerazione che il governo intende imporre al Parlamento sul nuovo Senato. É proprio così urgente modificare in fretta e furia questo aspetto così decisivo del funzionamento della democrazia, senza una maggiore ponderazione? É vero, il testo definitivo, dopo le approvazioni dei due rami del Parlamento, verrebbe sottoposto a referendum confermativo e il popolo avrebbe la possibilità di esprimersi. Ma in una consultazione popolare su aspetti così tecnici non si rischierebbe di far prevalere demagogia e populismi, trasformando l’appuntamento con le urne in un referendum sul governo Renzi più che sul testo della riforma?
I punti critici, che determinano lo stallo di queste settimane, rimangono due: l’elettività dei senatori e le competenze della nuova assemblea di Palazzo Madama. In particolare, sul dilemma “Senato di eletti (dal popolo)-Senato di nominati” si gioca la partita più dura. Nelle mani del Presidente del Senato, Pietro Grasso è la decisione se rimettere in votazione l’art.2 del nuovo testo, già approvato, che disciplina proprio i criteri di nomina dei nuovi senatori, o se darlo per approvato, come auspica il governo. Renzi, infatti, teme di non avere più i numeri per far passare l’ossatura della riforma. Dipenderà, in ogni caso, dall’ammissibilità o meno degli emendamenti che attengono a quell’articolo. Intanto Bersani ha alzato la voce nelle ultime ore e, a nome della minoranza del partito, ha rifiutato l’idea che per disciplina di partito si possa votare una riforma della Costituzione.
L’ultimo motivo di preoccupazione per il premier non arriva, però, dai suoi, bensì da Ncd, partito che sembra prossimo alla deflagrazione. Ci sarebbero una quindicina di senatori pronti a lasciare Alfano, che accusano di voler traslocare armi e bagagli nel centrosinistra. Questi dissidenti, riuniti attorno a Gaetano Quagliariello, sarebbero perfino intenzionati a non votare le riforme costituzionali, impedendo così al governo Renzi di avere la maggioranza. Ma anche i fedelissimi del ministro dell’Interno chiedono, in cambio dell’ok alla riforma del Senato, una revisione dell’Italicum con l’introduzione del premio di maggioranza alla coalizione vincente anziché al primo partito. Identica posizione di Forza Italia, che in cambio dell’appoggio alla riforma del Senato pone a Renzi la condizione perentoria di trattare sul Senato elettivo e sulla modifica della legge elettorale.
Il passaggio è cruciale. Renzi sembra essersi rafforzato nei giorni scorsi rinsaldando i vincoli con gli industriali e il mondo della finanza. Anche la svolta della Merkel in materia di immigrazione, che lascia meno sola l’Italia e i Paesi del Mediterraneo nella gestione dei profughi, sembra sia stata accolta con un sospiro di sollievo a Palazzo Chigi. Ma questo piccolo vantaggio il premier potrebbe dilapidarlo in pochi giorni se non dovesse trovare la quadra sulle riforme all’interno del suo partito e se non dovesse riuscire a condurre in porto la riforma del Senato. È vero, l’ex sindaco di Firenze potrebbe anche preferire la scorciatoia delle urne per ridimensionare l’opposizione interna e sconfiggere il centrodestra, ma in quel caso dovrebbe accettare di andare a votare con due sistemi elettorali differenti: il Consultellum (proporzionale) al Senato e l’Italicum alla Camera. Il rischio ingovernabilità sarebbe elevatissimo perché difficilmente a Palazzo Madama il Pd avrebbe una maggioranza netta. E a quel punto il governissimo diventerebbe l’unico scenario possibile o quasi. Con il definitivo naufragio dei sogni renziani.